Quando riforma non è sinonimo di progresso, vertenza Ikea è effetto Jobs Act. Concetto di eguaglianza dei diritti ma…. al ribasso

Con tutto quello che stava avvenendo a livello internazionale, ad iniziare dalla crisi greca, la vertenza dei lavoratori Ikea non ha trovato il giusto spazio sulle prime pagine dei giornali. Non tanto per la valenza della questione che riguarda un numero tutto sommato esiguo di lavoratori, se paragonati alle masse anche del solo comparto del commercio, ma perchè, come vedremo, quanto avvenuto all'Ikea non è altro che il temuto effetto delle politiche sul lavoro attuate dal governo di Matteo Renzi con la palese regia dell'imprenditoria italiana e della finanza internazionale. Cosa è accaduto in sostanza all'Ikea azienda svedese, considerata finora un modello di rispetto e correttezza nelle relazioni sindacali e contrattuali? Ad innescare lo scontro la decisione aziendale di non rinnovare il contratto integrativo aziendale dopo, dice Ikea, che negli ultimi tre anni le perdite di bilancio dovute alla crisi hanno prodotto un disavanzo di oltre 53 milioni di euro. L'azienda punta a decurtare o cancellare voci che in busta paga riguardano la maggiorazione prevista per il lavoro domenicale e festivo - ossia nei giorni clou in cui si registra una forte presenza dei lavoratori part-time - e l'importo fisso mensile del premio aziendale, utilizzando in maniera massiccia addetti meno “protetti” dal punto di vista contrattuale. Ovvero precari, interinali, stagisti, tirocinanti e qualche manager, che fra l'altro hanno consentito di tenere aperti i punti vendita nel giorno dello sciopero. Crumiri obbligati dalla mancanza di tutela, tanto che molti di loro, a denti stretti e con l'anonimato garantito hanno detto che: “col cuore siamo tutti fuori a protestare con i colleghi che hanno rinunciato al salario di un giorno per manifestare il disappunto nei confronti dell’azienda”. Sembrerebbe una tipica dinamica di scontro azienda-lavoratori con il tipico atteggiamento di scaricare il costo delle perdite o dei mancati guadagni sul personale. Ed è così, con l'idea di fondo di sostituire i diritti dei lavoratori con i vecchi contratti a tempo indeterminato con quelli nuovi, più flessibili e meno costosi, forniti su un piatto d'argento dalla politica renziana sul lavoro, ma per onestà intellettuale dalla giungla di contratti spuri generata anche dai governi precedenti con la scusa di rispondere alla crisi. Insomma accade in piccola scala quello che probabilmente avverrà a livello nazionale in tutti i comparti. Si tenterà di uniformare al ribasso i diritti dei lavoratori uniformandoli sul “tabellare” più basso, quello dei nuovi assunti. Una rivoluzione negativa che dimostra come sempre di più la parola riforme, che aveva una accezione positiva perchè il cambiamento portava progresso, oggi, come dimostra anche la politica Europea verso la Grecia, è invee portatrice di perdita di diritti e di decurtazioni dei salari in una logica di allargamento sempre maggiore della forbice fra ricchi, che diventano sempre più danarosi e classe media, che si avvicina sempre di più alla soglia di povertà. Insomma una finta politica di eguaglianza al ribasso, dove la classe media degli stipendiati e salariati, massacrata dalle politiche fiscali degli ultimi anni, si sovrappone attraverso la precarizzazione anche dei posti di lavoro che erano stabili o giustamente retribuiti, alle fasce dei nuovi assunti a tutele “crescenti”. Per capirci meglio, per molti le tutele decrescono, per altri aumentano, ma il punto d'incontro è una media che alla fine ha impoverito complessivamente il Paese, arricchendo solo i soliti noti. Un bel risultato per un centrosinistra e un partito, quello democratico, che dovrebbe immergere le proprie radici in una passato ed in una tradizione progressista e che invece sta reintroducendo una sorta di feudalesimo economico. Così quello che avviene all'Ikea non è che il preludio di quello che vedremo nei prossimi mesi, senza contare che anche le nuove decantate assunzioni sventolate da Renzi e dal suo ministro Poletti, solo tali perchè sul tavolo delle aziende sono stati messi imponenti aiuti sul piano di contributi economici per ogni assunto, contributi che alla scadenza triennale, se non rinnovati e facile prevedere vedranno l'uscita di molti di questi lavoratori. Questo perchè, anche con un licenziamento oneroso da parte dell'azienda, grazie all'abolizione dell'articolo 18 ora è previsto solo un obolo di benservito, lascerebbe il saldo positivo alle imprese fra quello che hanno risparmiato e quanto dovranno dare al lavoratore cacciato. Senza contare che magari potranno, giocando sulle qualifiche diverse o sulle mutate necessità aziendali, ottenere nuovi contributi futuri per nuovi assunti. Insomma la flessibilità intesa come deregulation selvaggia del mondo del lavoro i mano ad un imprenditoria che, persa ogni remora etica, vede solo l'accumulo di denaro come propria mission. Per capire meglio di cosa stiamo parlando e di quali “risparmi-profitti” farebbero le aziende, prendiamo come riferimento sempre Ikea. Si tratta di un taglio economico medio, una perdita economica secca di circa 1.500-2.000 euro netti all'anno per un dipendente a tempo pieno.Il Il risparmio aziendale, visti gli alti oneri che si pagano sarebbe di quasi il doppio. Con il taglio del solo premio aziendale, scrivono fonti sindacali, la perdita che subirebbe un dipendente di IV livello con contratto full time è di circa 832 euro all'anno cui si aggiungono 400 euro di taglio contributivo. Dopo lo sciopero che ha visto il solito balletto sindacato-azienda sulle adesioni, la trattativa ripartirà il 22 luglio. I lavoratori che non sembrano orientati a mollare la loro vertenza, incassano il "pieno sostegno e solidarietà" del leader Cisl, Annamaria Furlan, di quello della Uil Carmelo Bargagallo e del segretario Cgil, Susanna Camusso. Tutti, con qualche marginale distinguo, hanno le idee chiare: "Meno diritti, meno salario” ha chiosato la Camusso, secondo cui la strategia è chiara, pe qualuno, dice è 'meglio che l'Italia del lavoro diventi più povera'.

Fabio Folisi