I conti non tornano, tra Iva e Macchiavelli

Uno dei problemi più difficili per lo Stato è da sempre quello di contrastare l'evasione fiscale, fenomeno almeno in parte legato alla elevata o, per meglio dire, insostenibile pressione fiscale che negli ultimi anni (di crisi) non ha quasi mai smesso di crescere.

In questo enorme calderone, è doveroso specificarlo, non ci stanno solo coloro che evadono "per istinto di sopravvivenza" o perchè altrimenti non riescono a pagare gli stipendi dei propri dipendenti, ma anche il nutrito gruppo di "furbetti del quartiere" che sfruttano a loro vantaggio la faraginosità del sistema, raggirando controlli, verifiche e pagamenti.

Come in tutte le storie senza lieto fine che si rispettino, a pagare per tutti non sono i cattivi (in questo caso quelli che pagano o si fanno pagare in nero risultando "invisibili e trasparenti" agli occhi del fisco), ma tutto il resto della platea, coloro cioè che emettono regolare fattura e che, in tal modo, risultano visibili all'occhio rapace del fisco.

Se l'obiettivo (arginare l'evasione fiscale) risulta legittimo, anche i mezzi utilizzati per raggiungerli dovrebbero conservare questa caratteristica, ma lo Stato spesso preferisce (per ignoranza o supponenza) adottare la filosofia del Macchiavelli: "Il fine giustifica i mezzi".

Un tipico esempio, messo in campo in questi giorni, è l'applicazione del meccanismo della "Inversione contabile", che in inglese diventa "Reverse change": in sostanza il pagamento dell'Iva (tra le maggiori fonti di sostentamento dello Stato e una delle tasse più odiate da popolo) non viene più compensata nei passaggi intermedi, i fornitori dunque rimangono con un credito verso lo Stato che potranno incassare solo l'anno successivo.

Tale sistema, applicabile sia nei pagamenti tra privati (reverse change) che in quelli pubblici (split payment) avrebbe come obiettivo quello di impedire che società "finte" incassino l'Iva dal cliente evitando poi di versarla al Fisco scomparendo nel nulla. Nella stragrande maggioranza dei casi, dove l'Iva veniva regolarmente pagata, l'azienda la versa allo stato ma non la recupera dalle spese, generando degli ammanchi di cassa in grado di mettere in ginocchio imprese finanziariamente poco strutturate (il 98% delle imprese italiane sono micro-imprese).

A tali squilibri sul versante finanziario si aggiungono anche quelli derivanti dall'adeguamento del sistema informatico aziendale.

Risultato: l'impiego delle scarse risorse aziendali per far fronte a tali ulteriori adempimenti, a discapito del loro utilizzo per nuove assunzioni e l'aggiunta di ulteriore insicurezza e confusione all'intero processo produttivo.

Il problema diventa drammatico nel caso delle aziende agricole, dove il margine di profitto è spesso molto limitato e il mancato incasso dell'Iva a credito può sconvolgere un equilibrio finanziario già di per se precario.

Un'azienda agricola che produce, per esempio, un giro d'affari di circa un milione di euro, genera utili per poche decine di migliaia di euro, molto meno del valore del rimborso Iva. Ecco allora che al danno si aggiunge la beffa: aspettando il tempo "necessario" per poter ottenere tali rimborsi (diversi mesi) l'azienda sarà costretta a sopperire alla mancanza di liquidità tentando di accedere al credito bancario; in altri termini: dovrà andare in banca a "pietire" un prestito. Con scarse speranze di ottenerlo. Tutto questo in un contesto di crisi acuta e cronica che perdura da oltre un lustro. A queste condizioni non gettare la spugna diventa davvero difficile...

Altro che reverse change e Macchiavelli, gli italiani hanno bisogno di un sistema che gli consenta di lavorare in pace, facendo quello che sanno fare meglio di altri da secoli, non ammuffire davanti ad una calcolatrice impazzita che si ostina a dare solo risultati negativi, nonostante tutta la passione e la buona volontà di questo mondo.