Luciano Rapotez è morto. La nostra vergogna sopravvive

Luciano Rapotez

Luciano Rapotez

L'ex partigiano friulano, un tempo vittima di un errore giudiziario clamoroso del quale mai ricevette scuse e indennizzi, è morto la notte del 23 febbraio all'Ospedale di Udine. Era presidente dell'Anpi provinciale e regionale. 

di Lucia Burello.

«Signor Rapotez, ci dispiace». Parole semplici. Niente di tanto clamoroso. Niente di troppo impegnativo. Eppure queste parole, il partigiano Luciano Rapotez le ha attese invano tutta la vita. E come poteva essere altrimenti, del resto? Già, perché chiedere perdono e riconoscere i propri errori è un gesto che necessita di una tale onestà d'animo che, troppo spesso, si attende invano. Anche quando a scusarsi dovrebbe essere un Governo. O un capo di Stato a nome del Paese.
Luciano Rapotez, partigiano friulano e dirigente appassionato dell’Anpi regionale e provinciale, è morto ieri, la notte del 23 febbraio all'Ospedale di Udine, all'età di 94 anni.
Per chi avesse scarsa memoria e non capisse quali scuse la società civile dovesse a quell'uomo, ricordiamo che la sua lotta più difficile non fu certo quella partigiana, ma i 56 anni passati nell'impegno per ottenere il "ci dispiace" da uno Stato, l'Italia, che lo incarcerò e torturò ingiustamente. Motivo? "Un malinteso. Un dannato errore!"
Accadde a Trieste nel 1955, una sera di gennaio. Due poliziotti attendevano Rapotez sotto casa. Appena videro l'uomo, gli puntarono una pistola alle costole. «Scappa! - lo esortarono ringhiando – avanti scappa!»; ma Rapotez non si mosse. Non sapeva perché l'arrestassero e da cosa avrebbe dovuto fuggire, ma sapeva che, se lo avesse fatto, dopo due passi sarebbe morto.
Fu allora trascinato in questura e accusato di un efferato delitto: una rapina avvenuta nel 1946 in una villa sul Carso, dove erano stati assassinati i coniugi assieme alla loro domestica.
Rapotez negò disperatamente. Era innocente davvero. Ma c'è una cosa che l'ex partigiano forse al tempo sottovalutò, o non immaginò per nobiltà d'animo: che una colpa comunque l'aveva, essere comunista. E un comunista in gattabuia al tempo faceva comodo. Inoltre, dovendo dare soddisfazione alla prurigine del popolino che chiedeva un colpevole a gran voce, chi meglio da dargli in pasto di un ex partigiano dal cognome slavo?
Ma come fargli confessare un delitto che non aveva commesso? Domanda sciocca. A cosa serviva, altrimenti, la tortura che la guerra e il fascismo avevano ben insegnato? E allora giù botte come se piovesse. Cinque giorni alla fame e senza un goccio di acqua; e luce a giorno ogni notte per impedire anche un solo minuto di riposo. Ma come può riposare un poveraccio che ogni mezz'ora riceve una rata di botte? Come può pensare a dormire un disgraziato al quale si attaccano i genitali alla corrente elettrica? No, non può. Pensare a dormire proprio no. Magari a morire, quello sì. O, peggio, confessare: «Ero annientato. - disse Rapotez - Avrei ammesso anche d’aver ucciso Giulio Cesare».
Restò in galera tre anni. Poi, con la lentezza squisitamente italiana, iniziò il processo. Alla fine fu assolto per insufficienza di prove e dopo altri tre anni di calvario, grazie a tre testimoni che lo scagionarono, ricevette l’assoluzione piena.
“Eureka! Lei è libero signor Rapotez. Suvvia, non faccia la vittima, dimentichi sevizie e torture e si rifaccia una vita”.
Doveva suonare più o meno così la sua assoluzione. Fatto sta che l'uomo, senza ricevere una parola di scuse da parte di nessuno, e dopo aver perso anche la moglie che nel frattempo aveva trovato un altro, si trasferì in Germania. Già. E chi lo avrebbe mai detto che un partigiano, dopo lotte, boschi e schioppettate, avrebbe preferito un giorno vivere in territorio teutonico piuttosto che nell'Italia liberata? Sembra il colmo ma alla fine, il paese nemico si era rivelato ben più civile di quello per il quale lui, da ragazzo, fu disposto a dare la vita.
Dalla Germania Rapotez cominciò a scrivere a tutti: presidenti della Repubblica, capi di governo, ministri. Motivo? Voleva soltanto sentirsi dire quelle semplicissime parole: «Signor Rapotez, ci scusi». Ma niente. Niente mai.
“Ma che palle questo Rapotez!” - e forse suonavano così i commenti di coloro che, puntualmente ricevevano le sue lettere - Ma si può sapere cosa vuole? Soldi per caso?”.
E figuriamoci! Già perché ironia della sorte, nel 1979 quando la legge che prevedeva indennizzo alle vittime degli errori giudiziari venne approvata, il ricorso di Rapotez venne invece cassato. La ragione? «Le torture sono ormai in prescrizione».
Ma che bella figura di merda fece l'Italia! Le torture cadute in prescrizione. Allucinante.
E sì: come se violenze simili potessero essere davvero dimenticate, come se si potessi tornare quelli di prima, allegri e pimpanti. Come se la corrente alle palle in fondo fosse stata corroborante!
“Ma via Rapotez, ma che pretende? - immaginiamo ancora i pensieri degli uomini di Stato – infondo lei è stato uomo d'azione, coraggioso, tutto d'un pezzo! Mica s'è lasciato impressionare da quattro cazzotti? Mica vorrà un risarcimento per il frugale menù del carcere? Suvvia Rapotez, dimostri d'essere uomo e non faccia la mammoletta!”.
Il problema vero è che l'Italia si ostinava e si ostina a cancellare quella presenza “rossa”, nella sua storia. Si ostinava e si ostina a negare torture e persecuzioni alle popolazioni slave. Si ostinava e, purtroppo si ostina ancora, a nascondere le sue vergogne.
Luciano Rapotez dedicò la vita nella ricerca di quelle scuse. Ma non bastarono il libro denuncia scritto da Giorgio Medail e Alberto Bertuzzi, “Il caso Rapotez”, o l’aiuto dell'avvocato Stefano Taurini, che costrinse due volte la Cassazione ad ammettere le ragioni del friulano. No non bastarono. Perché le scuse non arrivarono mai. Mai e poi mai.
Ora Rapotez è morto. Già immaginiamo la ridondante retorica dei discorsoni degli uomini di Stato. Se mai si degneranno. Ma forse sì. E forse ci scapperanno perfino le tante agognate scuse. Si sa che in Italia quando uno muore diventa santo. Anche se è comunista mangia bambini.
Che dire? Oltre alle scuse speriamo che gli paghino un funerale di Stato. A questo punto è la cosa più utile che si possa fare per rimediare a questa indegna vicenda.
Dal canto nostro, dalla redazione di e-Paper, a Rapotez vogliamo comunque dire una cosa: grazie a lei e ai suoi compagni per aver combattuto e liberato il nostro paese. Avremmo voluto fosse migliore. Ma perfino i padri non sono perfetti e, a volte, al posto loro devono scusarsi i figli.
Scusi tanto signor Luciano. Ci dispiace davvero.