Le cinque lettere che neanche Obama può pronunciare: Islam

Quando, accendendo i nostri tablet o le televisioni, veniamo informati delle ultime macabre gesta del califfato in Siria ed Iraq, dell’estinzione della millenaria presenza cristiana in Mesopotamia, del rogo medievale di un pilota giordano in una gabbia, della decapitazione di ventuno innocenti ma colpevoli di credere in Gesù Cristo, dei numerosi stragisti in giro per il pianeta che si affrettano a giurare fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi, dell’imminente avvento della prima colonia dell’ISIS a duecento miglia dal territorio italiano, dei lupi solitari che entrano in azione nelle capitali europee e vendicano l’onore offeso di Maometto, premurandosi di portare con sé all’inferno qualche ebreo, degli hashtag #stiamoarrivandoaRoma che da Twitter rimbalzano sui nostri smartphone ancora prima di raggiungere le scrivanie della nostra intelligence, insomma, quando ci arriva l’ennesima sconcertante ultim’ora ci rendiamo tutti conto, ça va sans dire, che c’è un problema nel mondo, e anche grosso. Sì, Houston, abbiamo un problema. Ma come dobbiamo chiamarlo, etichettarlo, definirlo, incorniciarlo? Quali categorie usare per mettere a fuoco questo ciclo di orrore, questa catena di episodi sconcertanti che investono il pianeta di una barbarie spietata e a quanto pare inarrestabile? Che concetti intavolare, che analisi imbastire, che dibattito aprire per inquadrare una sequenza di assalti che, oltre alla sicurezza di tutti, mette a repentaglio le nostre libertà, quelle che abbiamo faticosamente conquistato dopo una secolare gestazione di civiltà e a prezzo di guerre fratricide? Come la vogliamo chiamare, insomma, questa minaccia? O, se si preferisce, chi e che cosa ci sta sfidando? Il terrorismo islamico? Il jihadismo? L’islam radicale? L’islam punto e basta? Una risposta a questi spinosi quesiti è necessaria e improcrastinabile, se vogliamo, ancor prima di contrastarlo, prendere le misure di un nemico che proclama apertamente di volerci conquistare, piantare la sua bandiera nera in Vaticano, non prima naturalmente di aver sparso ulteriore sangue in Medio Oriente, sulle sponde del Mediterraneo e, quando possibile, dentro i nostri confini, nelle nostre città sonnacchiose e decadenti. Rispondere a quella domanda – chi e che cosa ci sta sfidando – è imperativo, ma si tratta a quanto pare di un compito impervio per la classe politica dell’intero Occidente oltre che per un’intera schiera di opinion leader sempre pronti, in altre circostanze, ad affilare la propria retorica e a colpire con parole reboanti l’avversario di turno. Prendiamo l’uomo politico più importante di tutti: Barack Obama. Formalmente, l’inquilino della Casa Bianca è il leader del cosiddetto mondo libero, il comandante in capo dell’unica superpotenza rimasta al mondo dopo la liquefazione dell’orso sovietico, l’uomo cui spetta prendere le decisioni ultime di fronte alle minacce alla pace e al deflagrare di conflitti che possano destabilizzare l’ordine mondiale, la persona che si preoccupa tradizionalmente di chiamare a raccolta altri leader volenterosi affinché intervengano collettivamente per normalizzare i rischi geopolitici. Ebbene, colui che dal gennaio 2009 è nella stanza dei bottoni, e ci rimarrà per un altro paio d’anni, come sta reagendo di fronte al recente ciclo di terrore che avvolge cupamente interi continenti? Convoca a casa sua, com’è d’uopo, i principali responsabili della politica mondiale - è avvenuto poche ore fa - perché partecipino ad un summit il cui compito è l’elaborazione di una strategia. Bene, direte voi, finalmente, era ora. Ma c’è un problema che, ancor prima della produzione degli auspicabili risultati, riguarda le parole, le definizioni, le etichette. Il consesso internazionale riunito a Washington sotto la regia di Obama e del suo scudiero John Kerry era volto infatti ad individuare i metodi per, citiamo testualmente, “contrastare l’estremismo violento”. L’estremismo violento. Una domanda, a questo punto, sorge spontanea, e non la pone chi scrive ma una lunga fila di soggetti, soprattutto americani (eloquente la prima pagina del “New York Post” dell’altro ieri qui riportata), che hanno commentato con sbigottimento prima ancora che con sarcasmo l’iniziativa del loro presidente. Come mai, si chiedono costoro, negli inviti e nei cartelloni predisposti per il summit non c’è la parola “terrorismo” e, soprattutto, l’aggettivo “islamico” o, se si preferisce, “islamista”? Passi pure il “violento”, che ci sta, ma cosa può mai significare il termine “estremismo” se non si fa alcun riferimento a ciò cui questi estremisti si rifanno per giustificare le proprie azioni? Possibile mai, si domanda il fronte degli scettici, che la Casa Bianca si rifiuti di dire che il capo supremo del Califfato ha scelto per l’appunto di farsi chiamare “califfo”, un titolo che spetta solo ai successori di Maometto nel governo della comunità musulmana, la Umma? Possibile che all’astuto professore di Chicago salito al vertice del potere a stelle e strisce sia sfuggito che la bandiera nera innalzata dai tagliagole di al-Baghdadi ovunque, compresi i video dell’orrore sfornati per intimidire noi occidentali oltre che quei musulmani che osassero non sottomettersi all’autorità del califfo, riporta letteralmente ed integralmente la shahada, ossia la dichiarazione che ogni musulmano è tenuto a scandire per proclamarsi davvero tale, e che recita “Testimonio che non c'è divinità se non Allah e testimonio che Muhammad è il Suo Messaggero”? Non suggerisce nulla ad Obama il nome che al-Baghdadi e i suoi collaboratori hanno attribuito al territorio finito sotto il loro giogo, che è esattamente “Stato islamico”? Possibile che non gli dicano nulla gli “Allah è grande” gridati dai due killer di Charlie Hebdo, musulmani nati in Europa, mentre scaricavano i propri kalashnikov sui corpi dei vignettisti parigini, e ritmati a gran voce anche dal giovane danese, pure lui musulmano di seconda generazione, mentre tentava di uccidere un altro disegnatore europeo in un caffé di Copenhagen? Sì, Houston, abbiamo un problema. Che non è tanto il sedicente Califfo, le migliaia di foreign fighters europei ed americani, la decapitazione rituale di ostaggi inermi a favore di telecamera, la pulizia religiosa in Siria ed Iraq, il disordine che regna sovrano nel Medio Oriente, in Nigeria, in Libia, in Somalia, in Afghanistan e via dicendo. Il problema è anzitutto nostro, è occidentale. E per cominciare a risolverlo, per attrezzarsi ad affrontarlo psicologicamente e culturalmente ancor prima che con le armi, senza illudersi di farlo sparire non nominandolo, molti americani sono sempre più persuasi che toccherà attendere le prossime elezioni presidenziali del novembre 2016.

Marco Orioles