Felici d’essere tristi

FelicitàUn Leopardi illuminato ci ha convinti che la felicità è l'attesa della felicità stessa. E che la vita è come un sabato al villaggio.
E ci siamo persuasi che l'attesa dell'inedito, dell'evento che ci cambierà la vita, la fiducia nel domani è segno di un'anima salva dall'apocalisse. Che l'attesa del domani non è soltanto spirito di sopravvivenza, ma tensione verso la conoscenza. Il senso del nostro esistere.
Oggi, però, il domani si è fatto fumoso causa un progresso aberrante e paradossalmente invalidante, e così la nostra attesa è andata a farsi benedire, rendendoci molti più simili a un Baudelaire paralizzato dallo spleen.
Come trovare, dunque, la gioia?
Al proposito ci ha colpito uno studio pubblicato oggi su Repubblica e dal titolo: “Come cambia la felicità”.
La collega Elena Dusi mette a confronto due sondaggi, uno fatto nel 1938 e uno quest'anno, ed entrambi con la stessa domanda: “Cos'è la felicità?”.
La diversità delle risposte date a distanza di 80 anni ci hanno lasciato perplessi. Se negli anni Trenta la conquista più importante per essere felici era la sicurezza economica, ai giorni nostri è la possibilità di frequentare persone divertenti. La sicurezza economica, invece, è al secondo posto mentre in passato la stessa posizione la occupava l'istruzione e la conoscenza.
Sempre negli anni Trenta al terzo posto nella classifica della felicità c'era la fede, mentre nel 2015 c'è la gita fuori porta del fine settimana.
L'articolo in questione continua con una interessante dissertazione su cosa sia la felicità, e su come oggi, paradossalmente, il raggiungimento di un elevato tenore di vita (nonostante la crisi) rischia di diventare invalidante, causando dipendenze dai beni di consumo, stress, noia, apatia, insoddisfazione e corse frustranti verso il “successo”.
Ma ignoranza, impotenza, frustrazione sono indubbiamente le condizioni sia dell'uomo contemporaneo che dell'uomo di 80 anni fa; la differenza sostanziale è che il progresso tecnologico e scientifico è ora così veloce, che lascia indietro lo sviluppo delle coscienze e dei rapporti umani. In sintesi, il progresso è molto più avanti della nostra capacità di adattamento. Questo genera paura della solitudine, o meglio, paura di essere messi da parte; e in questo senso terrorizzati sono soprattutto gli over quaranta che, dopo aver perso il lavoro, la società considera troppo vecchi per rientrare nel circuito, mentre il progresso scientifico li ha resi, paradossalmente, troppo giovani per essere “rottamati”.
Se a questo sommiamo il cambiamento dei valori, dove i beni materiali, il successo, la bellezza, il consumo, hanno soppiantato il bene, la solidarietà, la famiglia, la politica, il dialogo, la democrazia, va da sé che la ricetta per la felicità, oggi è molto difficile da inquadrare.
E non stupisce la superficialità delle risposte odierne, che vedono nella risata e nel divertimento del fine settimana la soluzione alla crisi esistenziale. Non stupisce perché in una modernità che, come Bauman insegna, è diventata liquida, inafferrabile e difficilmente definibile, la regressione diventa un rifugio, così come l'assenza di responsabilità; perfino quella della vera felicità. Già, perché per essere felici, c'è chi pensa sia necessario essere consapevoli di sé, e per essere consapevoli sia indispensabile l'aver affrontato il dolore fino in fondo. Per Gandhi, invece, la felicità è “la perfetta concordanza fra ciò che si pensa, ciò che si dice e ciò che si fa”.
Secondo il Buddismo, per esempio, la felicità si raggiunge attraverso una disciplina interiore che porta alla conoscenza di se stessi, al riconoscimento delle proprie imperfezioni, al distacco dal desiderio e, di conseguenza, dalla sofferenza.
Ecco un altro punto interessante: il desiderio. Secondo i buddisti, infatti, che a quanto pare sono i più felici della terra godendo di intensa attività nei lobi prefrontali sinistri, i cosiddetti “centri della felicità”, la strada verso l'illuminazione e il risveglio è l'abbandono del desiderio liberandosi dalla corruzione della vita materiale. La felicità, dunque, è il nirvana: la distruzione di ogni illusione del pensiero e dei sensi, la realtà ultima, la beatitudine eterna. Il nulla.
La prospettiva non ci sembra particolarmente allettante.
Aristotele diceva che «la felicità è il senso e lo scopo della vita, la totale finalità dell'esistenza umana», ma è lecito credere che essa non sia identica per tutti, e che, come diceva Camus, la felicità è qualcosa che ognuno deve trovare da solo.

Mutevole nel tempo, nello spazio, e a seconda delle diverse culture, o religioni, prima di ambire al raggiungimento di una tale condizione, forse sarebbe bene, come auspicava Rousseau, iniziare a capire che cosa intendiamo noi per felicità.
Chissà? Forse a noi occidentali di mezza età, ormai naufragati nella liquida modernità, non resta che fare di necessità virtù e usare la nostra conoscenza ed “esperienza”, per abbandonarci a una disperazione scintillante, a una brillante vena apocalittica. Insomma, non ci resta che lasciarci andare all'euforia degli abissi. Perché a conti fatti, oggi come ieri, noi occidentali, da un sabato del villaggio a uno spleen, dalla crisi economica all'assenza di prospettive, da sempre abbiamo paura di essere felici. E alla domanda: “non pensi che la felicità ti farebbe bene?”, siamo più inclini a rispondere come Charlie Brown che come un Sufi: «Non lo so. Quali sono gli effetti collaterali?»