C’è poco da ridere: il testamento del direttore di “Charlie Hebdo”

È appena uscito e già fa discutere, il libro di Stéphane Charbonnier, direttore di “Charlie Hebdo” fino al 7 gennaio 2015, giorno della sua brutale soppressione nel centro di Parigi per mano dei fratelli jihadisti Said e Cherif Kouachi. Si intitola “Lettera aperta ai truffatori della islamofobia che fanno il gioco del razzismo”, ottantotto pagine completate appena due giorni prima dell’attentato che ha insanguinato la redazione del settimanale satirico, provocando 12 vittime, altrettanti feriti e uno shock per la Francia e il mondo intero. Stando alle anticipazioni pubblicate dal Nouvel Observatur, il libro di “Charb”, come veniva chiamato il leader di una squadra che nutriva una fede incrollabile nella libertà di espressione e per questo ha guadagnato la morte, non tradisce le aspettative. La visione del mondo di Charbonnier, nemico giurato del fanatismo religioso, non è in ogni caso nuova e ha già ricevuto un’incontestabile sanzione con quei quindici minuti di terrore a Parigi e con il grido dei Kouachi dopo la strage, “Abbiamo vendicato il profeta Maometto”. Le vignette dissacranti su Maometto, marchio di fabbrica dell’impresa giornalistica di Charb, irritavano molti musulmani più o meno integralisti e hanno riaperto una questione che risaliva ad almeno un quarto di secolo prima. Correva infatti l’anno 1989, quando l’innocuo romanzo di uno scrittore britannico di origine indiana, Salman Rushdie, generò una mobilitazione su scala mondiale innescata dal leader riconosciuto, a quel tempo, del fondamentalismo islamico, l’ayatollah Khomeini. La “fatwa” emanata dalla guida suprema dell’Iran condannava a morte il “blasfemo” Rushdie ed esortava i fedeli ad eseguire personalmente la sentenza. Un gesto drammatico ed una provocazione, quella del morente fondatore della Repubblica islamica, che era soprattutto volta a rianimare quella sfida iraniana appena uscita esangue dal lungo conflitto con l’Iraq di Saddam Hussein e i suoi alleati sunniti, preoccupati del contagio di una rivoluzione che amava presentarsi come un modello per tutto il mondo islamico e non lesinava risorse per favorirne l’esportazione. A differenza di Charb, anch’egli additato come blasfemo, Rushdie è ancora vivo, ma quell’episodio del lontano 1989 rappresenta ancor’oggi un ammonimento oltre che un argomento a favore della tesi dello scontro di civiltà. Una tesi poco politicamente corretta, direbbe Charb, ma che continua ad accumulare lugubri conferme. Si pensi, oltre al triste destino di Charlie Hebdo, all’apocalisse dei migranti gettati in mare solo perché adepti di una fede sgradita, o alla mattanza dell’università keniota di Garissa. Il mondo è teatro di una violenza inaudita compiuta in nome di Dio, ma gli uomini in doppiopetto o con la sciarpa arcobaleno faticano a riconoscerne la pur evidente matrice e balbettano quando si riuniscono per discutere su come fermare questo ciclo inarrestabile di terrore. Questo, a ben vedere, è il cuore del libro di Charb, che punta il dito non tanto sui killer musulmani – già oggetto, quando era in vita, della sua satira pungente - quanto su chi, in Occidente, si rifiuta di sostenere l’evidente, ossia che alcuni “devoti” si sentono autorizzati a uccidere in nome della loro fede. “Il problema”, scrive lucidamente Charb, “non è il Corano, né la Bibbia” ma “quei credenti che leggono il Corano o la Bibbia come un manuale di istruzioni per assemblare uno scaffale Ikea”. L’accusa è chiara e non è affatto espressione di una voce solitaria come fu quella di Charbonnier, ancor’oggi accusato di aver gratuitamente offeso la sensibilità religiosa di pacifici credenti. Chiunque abbia un minimo di conoscenze della storia del fondamentalismo islamico sa che esso, in qualunque variante si sia manifestato nei secoli, consiste nella promozione di un’interpretazione letterale dei testi sacri dell’islam e in una conseguente e soffocante ortodossia, per quanto assurda e incompatibile con i diritti dell’uomo. La dottrina del Corano “increato”, dettato direttamente da Dio a Maometto e quindi assolutamente sacro e immodificabile, è iscritta nelle fondamenta teologiche e giuridiche dell’islam. Così il dogma della venerazione di Allah e di lui solo, da cui l’interdizione dell’adorazione di qualsiasi altra figura, Maometto incluso, e il divieto della loro rappresentazione iconica, con la conseguente condanna di chi contravviene alla norma, a partire ovviamente da quei vignettisti che, a tale già pesante accusa, sommano l’uso del sense of humor, una vena poco diffusa nel mondo dell’islam. Il nocciolo del problema è questo e pesa come un macigno sulla pancia dell’umanità che ne patisce le conseguenze. L’unica via di uscita, come ha scritto la musulmana dissidente Ayaan Hirsi Ali nel suo ultimo libro e ha sostenuto anche il presidente egiziano al-Sisi in uno storico discorso all’università cairota di Al-Azhar, sarebbe l’avvio di una “riforma” dell’islam che ne espunga gli elementi che favoriscono la violenza contro chi viene reputato un trasgressore, apostata, infedele, blasfemo. Missione purtroppo improbabile per una religione acefala, senza gerarchie religiose che abbiano l’autorità di elaborare una revisione dottrinale e di farla rispettare alla massa dei fedeli. In attesa di trovare il bandolo della matassa, se mai si troverà, converrebbe dunque esercitare, noi, cittadini di quell’Occidente entro i cui confini risiedono milioni di musulmani, la massima pressione affinché costoro rigettino, anche senza un mandato dall’alto, questo retaggio di intolleranza. Anche qui tuttavia non si muove foglia, denuncia Charb, che punta il dito sull’inerzia e, peggio, sul collaborazionismo del nostro establishment. Anziché ostacolare le derive violente di una religione troppo prona ad essere distorta a vantaggio dei fanatici, i nostri politici e i campioni della società civile preferiscono brandire la tesi della “islamofobia” messa in piedi dai movimenti islamisti per denunciare presunti pregiudizi contro chi professa l’islam. Argomento fasullo, sostiene Charb, buono solo a coprire la vera sostanza di un perdurante razzismo, quello sì, che lungi dal colpire i seguaci di una fede trova le sue “vittime” nei diversi, siano essi “indiani, asiatici, rom, africani neri, caraibici”. Non è una particolare religione ad essere oggetto di fobie o disprezzo, argomenta Charb, ma chi la osserva: le persone in carne ed ossa con tutto il loro carico di differenze etniche, con la loro apparenza fisica così inequivocabile e disprezzata. L’accusa di islamofobia è dunque fuorviante e purtuttavia efficace, punzecchia l’ex direttore di Charlie Hebdo. Che col suo consueto sarcasmo suggerisce alle vittime di razzismo di “trovarsi una religione se vogliono essere difese”. Quello di Charb è insomma un sonoro J’accuse nei confronti dei “professionisti dell’antirazzismo”, come li definirebbe Leonardo Sciascia, volto a smascherare il “disgustoso paternalismo della sinistra intellettuale, borghese e bianca” che non trova occupazione migliore del fare propria l’agenda degli islamisti impegnati a tempo pieno a soffocare le critiche vere o presunte alla loro religione. Campagne che prendono di mira, di solito con successo, scrittori e giornalisti che come Ayaan Hirsi Ali, Oriana Fallaci o Magdi Allam scuotono il nostro fatuo conformismo mettendoci di fronte a fatti tragici come l’infibulazione, i delitti d’onore e ovviamente il terrorismo religioso, tutti fenomeni che sorgono nella zona grigia dove si confondono islam e islamismo. Per non parlare della censura che si abbatte su quegli artisti che scelgono di mettere in scena l’islam o Maometto, salvo ricevere frettolosi ma autorevoli inviti a desistere o, come accadde a Theo Van Gogh, essere fisicamente eliminati. Con la sua strenua resistenza culturale, espressa attraverso vignette graffianti e sicuramente discutibili, Charlie Hebdo espresse la propria ribellione nei confronti di tale cappa oscurantista, finendo così oggetto delle attenzioni dei terroristi o dei tribunali. Le innumerevoli cause giudiziarie intentate contro Charb e collaboratori non sortirono alcun effetto, grazie ad una legislazione che in Francia tutela incrollabilmente la libertà di espressione. Non lo stesso può dirsi, purtroppo, per la vita dei membri della redazione di Rue Nicholas Appert, dove la spada dell’islam è stata sguainata per l’ennesima volta senza che nessuno lo potesse impedire. Assieme al testamento appena uscito di Charb, l’attentato del 7 gennaio 2015 rappresenta un monito per tutti coloro che hanno a cuore un valore, la libertà di espressione, che amiamo ritenere alla base della nostra civiltà. Peccato che chi lo difende con i fatti oltre che con le parole faccia talvolta una brutta fine.

Marco Orioles