Accettiamo di invecchiare, per mandare in crisi la crisi

Il ritratto di Dorian Grey

Il ritratto di Dorian Grey

di Lucia Burello.

Dai 40 anni in poi, è insopportabile guardare allo specchio, giorno dopo giorno, l'inesorabile degrado del corpo, il capolavoro della morte. Ma la morte è un'artista vanitosa. Paradossalmente mediocre. E’ unica nel suo lavoro, non ha rivali, eppure lo deve ostentare facendoci subire il decadimento della carne.
Questa vanità dovrebbe appartenere solo ai mediocri. Se la morte fosse più umile, ci porterebbe via nel momento della nostra maggiore bellezza.
Non si scandalizzino i benpensanti di queste parole, perché tutti noi, ormai, più della morte abbiamo il terrore di invecchiare.

Che poi non è nemmeno terrore, è semplicemente rabbia.
E hanno un bel dire tutti quanti: che l'anzianità dona consiglio, che la vecchiaia è solo un'altra parte della vita, che la consapevolezza è una conquista senza pari, che i nipotini sono gioia e altre simili corbellerie.
Ed avevano un bel predicare perfino Cicerone e Innocenzo III, dicendo che la senilità è ricca di gioie, buone letture, la cura dei campi e le pratiche delle virtù. Affermando che ciò che conta è quello che ci aspetta dopo la morte. Ma né Cicerone né Innocenzo hanno visto l'era attuale dove è impossibile che qualcuno, sincero fino in fondo, si lasci davvero convincere da questa antica saggezza. Dove, immersi in una cultura non laica, ma consumista ed edonista, la scomparsa della fede non fa più credere nel al di là, ma solo nel al di qua.
Diffidiamo, dunque, di chi afferma di non temere la vecchiaia, perché lo dice trascorrendo il tempo libero passando da un maestro yoga a una lezione di pilates, da un intervento di chirurgia plastica al lettino di un'estetista, dallo spinning allo jogging, dalle tavole vegane agli esercizi dei quattro tibetani che promettono eterna giovinezza. Oppure davanti al computer o distesi sul divano ingrassando a suon di apatia e tragica rassegnazione.
E non dimentichiamo che l'80% degli uomini over 40, si depila petto e inguine perché intravede i primi peli bianchi. Ipocriti tutti quanti. Nessuno ha il coraggio di ammettere che invecchiare è orribile. Nessuno ha il coraggio di ammettere che farebbe di tutto pur di vivere fino a 100 con l'aspetto e la forza di un ventenne. E mai come in questa società, culturalmente corrotta e ricca di aberrazioni valoriali, “imputridire” è diventato così insopportabile. E se fossimo onesti fino in fondo con noi stessi, ammetteremmo che non è certo la morte a farci paura, essa infatti e spauracchio superato e dura pochi attimi; a farci paura, invece, è la perdita della bellezza, del sex appeal, della forza fisica, dell'intelletto, della visione del futuro. E mai tragica è stata la senilità come in quest'epoca dove può durare quanto la giovinezza, o addirittura di più. L'allungamento della vita, infatti, è una lama doppio taglio: la salute può essere mantenuta, ma l'invecchiamento esteriore può essere soltanto ritardato di poco, mentre il cervello, al quale è concesso il tempo di osservare l'evolversi del mondo circostante, seducente e seduttibile, difficilmente riesce ad accettare il tempo che passa e i limiti che infligge al corpo.
E allora eccoli i settantenni imbottiti di viagra, con la fuori serie e le ragazzine al loro fianco, e le così dette mealf che si divertono con i così detti toy boy, nomi e concetti inesistenti fino a un decennio fa.
Ecco che nel disperato tentativo di combattere l'invecchiamento, più o meno palese, finiamo con il combattere contro la vita stessa, che tutto ci toglie senza ricompense.
E il nostro quotidiano si trasforma inevitabilmente in una lotta senza posa contro il tempo, un'ossessione che si fa quasi prigione ma che non consente l'evasione. Sì perché in questa cultura della performance, del consumo imperante e del “successo”, non è consentito lasciarsi andare, ingrassare, imbiancare, vestirsi come viene accettando il declino, perché saremmo tagliati immediatamente fuori, al bando della società con marchiata a fuoco in fronte la lettera P di perdenti.
«Invecchiando non si diventa più belli, né più agili e nemmeno più intelligenti. – scriveva il filosofo Jean Améry, del quale mai come adesso è attuale il suo saggio, edito nel 1968, “Rivolta e rassegnazione. Sull'invecchiare” - Chi invecchia diventa brutto: brutto è ciò che si odia. Diventa debole, il che nel linguaggio corrente equivale a esprimere una valutazione di merito, o meglio di demerito».
Arméry, e anche qui gli ipocriti avranno a che ridire, fece una lettura così lucida sulla tragedia dell'invecchiamento, che non stupisce sapere che a 65 anni si suicidò. Secondo il filosofo, infatti, la vecchiaia è un destino ineluttabile che umilia non solo i corpi, ma anche gli spiriti.
Dopo questa visione lucida e non pessimistica, ricordiamo che soltanto le menti semplici confondono la lucidità con il pessimismo e il realismo con il cinismo, possiamo dire che per noi non c'è via di fuga. E consapevoli finalmente che in fondo siamo tutti degli Osacr Wilde disposti a pagare fior fiore di quattrini per un dipinto che ci mantenga giovani e belli fuori sebbene putrescenti nell'animo, rispolveriamo il vecchio saggio di Arméry. Leggerlo con più consapevolezza e obiettività, nonostante la sua asprezza, è un passaggio utile a sviluppare un po' di senso critico. Certo non ci sono ricette per restare giovani, tutt'altro, ma l'esperienza insegna che affrontare i propri demoni aiuta ad esorcizzarli. Ecco che, forse, affrontando il concetto di vecchiaia così come ce lo serve il filosofo francese, una vera terapia d'urto, forse potremmo imparare ad accettare il peggio con maggiore serenità, in barba a quel “decoro” che frutta abbonamenti in palestre e impennate di aziende di cosmesi e moda nelle borse. Perché alla fine della fiera, enfatizzandole, hanno trasformato le nostre paure in un gigantesco conio. Accettiamo di invecchiare, forse manderemo in crisi la crisi.