Nuovi orrori della guerra bussano alle porte dell’Europa. Hamas-Israele, Netanyahu-Palestina. Storie di belve e agnelli sulla pelle degli innocenti

Che cosa resta, della guerra, nella mente di chi l’ha vista da vicino? Me lo sono spesso chiesto ricordando quanto i miei sensi, occhi, orecchie e olfatto, avevano percepito in ex Jugoslavia e quanto le conseguenti emozioni mi avevano trasmesso. Tutto scolpito nella memoria in maniera indelebile, eppure per mesi dal mio ritorno dalle zone di guerra della Bosnia martoriata da una guerra civile, crudele come possono essere gli scontri fratricidi, faticavo a raccontare quanto visto e sentito. Una fatica prima di tutto interiore, come se dare l’oblio a quelle immagini, quei suoni e quegli odori, evocatori di morte, potessero derubricare tutto nel dimenticatoio di quella parte del cervello che immagazzina i brutti sogni e cerca di esorcizzarli. Ed invece l’incubo lo si porta dentro e talvolta riemerge. Allora arriva la consapevolezza che diventa via via sempre più lucida ma che torna in maniera virulenta ad ogni rombo di cannone di nuove guerre, di nuove violenze. E’ stato cosi per me davanti alle dimenticate stragi “multinazionali” perpetrate sul popolo Curdo, alla distruzione di Aleppo, è stato così guardando le immagini dall’Afghanistan e dell’aggressione della Russia all’Ucraina. Ora sta avvenendo per quanto succede in Medio Oriente. Ma per un giornalista c’è l’obbligo di capire e di sapere, niente testa nella sabbia, ma occhi e mente aperta. Ovviamente in questa nuova fiammata devastante la cosa non è per nulla semplice, perché non solo bisogna rimettere al posto tutte le conoscenze ed apprenderne altre, ma perché bisogna resistere alle emozioni, all’empatia che inevitabilmente ti spinge a prendere le parti dei deboli e degli oppressi, anche quando il lupo si fa pecora e viceversa. Ed in questa occasione, contrariamente all’aggressione della Russia all’Ucraina, identificare chi è più debole e più oppresso, chi è lupo e chi è agnello, è affare dannatamente complicato. Iniziamo con il dire che seguire le tifoserie naziona-polari italiche, i pollai mediatici che si sono scatenati, non è certo la maniera migliore per capire quanto sta accadendo, soprattutto per comprendere fino in fondo cosa e chi ci ha portato alla crisi più grave e pericolosa dell’ultimo decennio. Non è che situazioni complicate e pericolose non ne abbiamo viste, ma quella che si sta giocando in questi giorni, in queste ore, è davvero, una ingarbugliata e pelosissima situazione con scenari che si modificano continuamente e di cui nessuno può per davvero comprenderne l’evoluzione. Così il rischio di apparire pilateschi è sempre presente. Partiamo però, a scanso di equivoci, nel dire che la strage improvvisa quanto orribile perpetrata da Hamas non può trovare alcuna giustificazione, non è azione di resistenza, ma orribile reato contro l’umanità, perché quando l’obiettivo sono bambini e civili innocenti, oggetto non solo di morte, ma di irraccontabili ed indicibili violenze e torture, non ci possono essere equivoci. Comprenderne la genesi è fondamentale se non altro per scongiurarle in futuro. Prendiamo per estrema sintesi e come prima linea guida, il documento “Fermiamo la violenza. Riprendiamo per mano la pace” della coalizione AssisiPaceGiusta, dove si legge: “Siamo dalla parte del popolo di Israele, anche se condanniamo la politica di Netanyahu, siamo dalla parte del popolo di Palestina, anche se condanniamo il terrorismo di Hamas”. Intendiamoci non si tratta di essere equidistanti, ma di sintetizzare gli effetti separandoli dalle cause. Allora andiamo nello specifico e per farlo bisogna tuffarsi nella storia almeno degli ultimi decenni e meglio di tutto è attingere alle fonti, internet da questo punto di vista, a patto di sapere selezionare le fonti, è strumento formidabile. Non si tratta però solo di leggere commenti e analisi sulla cronaca di questi giorni, ma leggere della coscienza maturata in Israele in questi anni. Una coscienza che contrariamente alle analisi delle tifoserie nostrane tutte tese nello spasmodico desiderio di dimostrare “ariana” solidarietà ad Israele, per alcuni “nipotini” di Mussolini per di più con paradossale storica contraddizione.

E’ fondamentale invece che si identifichi, da un lato, Hamas come folle organizzazione militare terroristica sorretta da un orribile ideologia teocratica confessionale, ma dall’altra, la violenza folle di uno Stato che si dice democratico e che però pratica una segregazione così crudele da spingere i suoi vicini a scegliere a quale morte votarsi, se di stenti o di martirio nel nome di una resistenza drammaticamente sbagliata nei modi. Perchè Hamas dice di voler difendere il suo popolo ma per farlo non esita a farlo massacrare con lo scopo di rendere contagioso il male. Se quindi il giudizio su Hamas, sul suo ruolo terroristico, sulla sua ascesa al potere e soprattutto sul mantenimento di questo sulla pelle del popolo Palestinese non vi è alcun dubbio, più complessa è l’analisi sulla situazione dello Stato d’Israele che certamente è una democrazia ma che come tutte le democrazie nasconde per sua natura il rischio involutivo nella scalata al potere di soggetti, come Netanyahu, che non esitano a rivedere le regole per poterselo tenere stretto il potere raggiunto. Cambiano i metodi ma la sostanza è la stessa, Hamas usa il terrore, Netanyahu lavora demolendo pezzo a pezzo le garanzie costituzionali o quanto meno tenta di farlo. Un modus operando purtroppo appannaggio delle destre estreme di cui vediamo tentativi surrettizi perfino nelle “riforme” che si vorrebbero imporre anche in Italia. Ma il problema in Israele è decisamente più complesso perché non vi è solo l’aspetto politico ma anche una crisi stessa nella società che non ha ancora trovato la via che la porti ad una effettiva accettazione della convivenza con gli altri, uscendo dalla gabbia ideologico-religiosa del “popolo eletto”. A dirlo e spiegarlo è Gideon Levy, giornalista israeliano del quotidiano Haaretzin, che già in un editoriale del 4 luglio 2014 affrontava la questione come solo menti libere da condizionamenti in una democrazia possono fare e questa è già una grande differenza rispetto ai “governati” della Striscia. Scriveva Levy a dimostrazione che quanto accaduto oggi ha radici lontane: “l’abituale saluto in ebraico è “Shalom” (“Pace”) – quando uno se ne va e quando arriva. Praticamente ogni israeliano dice di volere la pace, è ovvio. Ma in realtà non fa riferimento al tipo di pace ed in particolare a quella che porta anche alla giustizia, senza la quale non c’è pace, e non ci potrà essere……. “Verosimilmente il desiderio di pace di Israele è morto dopo il fallimento del summit di Camp David nel 2000 con successiva diffusione della menzogna secondo cui non ci sono partner palestinesi per fare la pace, e, ovviamente, l’orribile periodo intriso di sangue della Seconda Intifada. Ma la verità è che, persino prima di tutto questo, Israele non ha mai veramente voluto la pace. Israele non ha mai, neppure per un minuto, trattato i palestinesi come esseri umani con pari diritti. Non ha mai visto la loro sofferenza come una comprensibile sofferenza umana e nazionale. Il dato di fatto più evidente del rifiuto della pace da parte di Israele è, ovviamente, il progetto di colonizzazione. In poche parole: chi costruisce gli insediamenti vuole consolidare l’occupazione, e chi vuole consolidare l’occupazione non vuole la pace. Questa in sintesi è la questione. Se Israele avesse voluto raggiungere la pace attraverso gli Accordi di Oslo, avrebbe almeno bloccato la costruzione di colonie di sua spontanea iniziativa. Il fatto che non sia avvenuto prova che gli accordi di Oslo sono stati un inganno, o nella migliore delle ipotesi la cronaca di un fallimento annunciato. Se Israele avesse voluto ottenere la pace a Taba, a Camp David, a Sharm el-Sheikh, a Washington o a Gerusalemme, la sua prima mossa avrebbe dovuto essere la fine di qualunque tipo di edificazione nei territori occupati. Senza porre condizioni. Senza contropartita. Che Israele non lo abbia fatto è la prova che non vuole una pace giusta”.

Così è sorto un nuovo desiderio di Israele, quello della separazione che si è trascinato fino al fatidico 7 ottobre 2023: “Loro se ne staranno là e noi qua (e anche là).” In sostanza spiegava Gideon Levy anche quando la maggioranza dei palestinesi– ancora desiderava la coesistenza la maggioranza degli israeliani voleva il disimpegno e la separazione, ma senza pagarne alcun prezzo. La visione dei due Stati aveva guadagnato una diffusa ma teorica adesione internazionale ma senza la minor intenzione di metterla in pratica. Chiunque dentro Israele ma anche fuori, osi criticare la politica di occupazione è etichettato come antisemita, ogni atto di resistenza è interpretato come una sfida esiziale. Ogni opposizione internazionale all’occupazione è letto come una “delegittimazione” di Israele e come una minaccia all’esistenza stessa del paese. Ed oggi dopo lo scellerato attacco di Hamas tutto questo rischia di raffozzarsi nel soprattutto nelle opinioni pubbliche occidentali. Sconfitta definitivamente quindi la teoria tutta israeliana della salvaguardia dello status quo. Il problema è che quella situazione non poteva durare per sempre, spiegava ancora nel suo editoriale Gideon Levy perché storicamente, poche nazioni hanno accettato di vivere per sempre sotto occupazione senza resistere. Si aggiunga a questo la repressione, l’occultamento e l’offuscamento dei fatti, la colpevole distrazione dell’occidente e la convenienza perfino per molti paesi arabi di tenere “sospesa” la questione palestinese ed ecco che la follia omicida di Hamas ha trovato spazio per potersi esprimere e probabilmente appoggi anche da una parte della popolazione palestinese. Fino al 7 ottobre l’unico modo che la Striscia di Gaza assediata aveva per ricordare al mondo e alla stessa Israele la sua esistenza era di sparare razzi a casaccio. Una strategia tutto sommato di blanda tensione “accettata” da Israele che si sentiva forte della propria capacità di deterrenza militare, sicurezza che è naufragata in quella mattina che ha rovesciato gli equilibri rendendo vulnerabile anche nella mente stessa dello Stato ebraico la propria presunta invulnerabilità. Una responsabilità enorme del governo Netanyahu che nella sua spasmodica voglia di appoggiare i nuovi coloni in terre occupate si è dimenticato di difendere i territori legittimi intono alla Striscia di Gaza. In sostanza, guardando le cose con il cinico occhio dell’analista di “cose” militari il problema è che dalla striscia non ci si è più limitati a sparare razzi (che la stampa italiana continua spesso a chiamare missili dimostrando di non sapere di cosa si parla dato che i razzi altro non sono che ordigni artigianali che esplodono dove cadono con pochissime possibilità di mira da pare di chi li lancia, mentre i missili sono strumenti di morte sofisticati in grado di colpire con precisione. Ma qualità degli attacchi a parte, è quanto avvenuto sabato 7 ottobre che ha rimescolato del tutto le carte, e non solo per il livello di orrore, ma perché ha demolito in poche ore le convinzioni dell’intero popolo dello stato ebraico di poter mantenere lo status quo tenendo rinchiusi in un recinto milioni di individui senza speranza, se non quella instillata loro dalla follia di Hamas e della sua lettura di Islam bellicoso che vorrebbe l’annientamento degli infedeli. Se quindi nella situazione vi sono forti e storiche responsabilità dello Stato ebraico e dell’occidente che lo ha incondizionatamente sostenuto, magari semplicemente chiudendo gli occhi su molte nefandezze compiute, dall’altra vi sono responsabilità assolute da parte di Hamas, ma anche di una parte dei palestinesi che si sono lasciati strumentalizzare e che oggi rischiano di pagare il prezzo più alto. Perché è chiaro che i veri capi di Hamas non sono certo nella Striscia ma restano spaparanzati sui divani damascati di paesi correi. L’impressione è quindi che si sia perso definitivamente il treno dei due popoli in due stati e non solo perché l’obiettivo di Hamas e temiamo anche dalla incattivita opinione pubblica palestinese, sia l’annientamento dello stato di Israele che rischia di rispondere con la stessa moneta, perché dopo il 7 di ottobre anche in Israele sta prevalendo il sentimento della vendetta divaricato da quello della giustizia. Un dramma perché la differenza fra una teocrazia sanguinaria, come quella che vorrebbe imporre Hamas e una democrazia è proprio nel valore di umanità e giustizia. Il vero dramma che non solo le ferite sono sanguinanti in ambedue le parti ma che più di qualcuno, anche in Italia, pensa che lo scontro finale sia la soluzione. In realtà anche se Istraele nella sua voglia di vendicare le stragi arriverà a perfezionare tutti gli obiettivi miliari che si è prefissa, la situazione sarà ben lungi dall’essere risolta perché sangue chiamerà altro sangue e chissà per quante generazioni. Ed allora cosa possono fare le persone di buona volontà, non certo mettere semplicemente alla finestra la bandiera di Israele e e neppure quella palestinese. E’ il momento dell’utopia è sventolare l’unica bandiera possibile, quella della pace come unica risposta ai due progetti incrociati di genocidio.

Fabio Folisi