Nel Tibet, tetto del mondo tabù citare il Dalai Lama

 

Più ancora delle vette peruviane degli Incas, il Tibet è precluso ai malati di cuore data la sua altitudine. Infatti è definito “tetto del mondo” e la sua capitale Lhasa si trova a 3.600 metri. In questo 'cuore segreto' dell'Asia convivono due mondi che difficilmente si incontrano. Uno si identifica con il trono di Lhasa, l'altro con i villaggi socialisti filo-cinesi dove è ancora tabù parlare dell'attuale Dalai Lama, da decenni esule. Per capirlo bisogna sfogliare i libri della sua storia.
L'impero tibetano, che da subito adottò la religione buddista come religione di Stato, fu fondato nel 7° secolo dopo Cristo. Seicento anni dopo fu invaso dai mongoli di Gengis Khan che poi conquistarono anche la Cina di cui il sovrano mongolo Kublai Khan divenne imperatore. Da qui l'origine della rivendicazione cinese su Tibet, che da allora e per 700 anni fece appunto parte dell'impero cinese.
Nel 1911 il 'tetto del mondo' si proclamò Stato indipendente, guidato dal primo Dalai Lama. Ma nel 1950 Mao lo invase e proclamò la sua riannessione alla Cina, diventata comunista dopo la 'lunga marcia'. Nove anni dopo scoppiò una grande rivolta popolare che Mao stroncò nel sangue (65 mila morti). Il Dalai Lama fuggì in India; da allora non è più tornato.
Nuova svolta nel 1964: Pechino creò la “Repubblica autonoma del Tibet” contestata dalla popolazione locale perché, rispetto alla loro, originale, non comprendeva due vaste province che passarono a far parte direttamente della Cina.
Altri due anni e, dal 1966 al '76, durante la 'Rivoluzione culturale, le 'Guardie rosse' distrussero oltre 6 mila monasteri e un milione e 200 mila tibetani furono deportati. Nuovi disordini a Lhasa nel marzo 2008 nell'anniversario della grande rivolta del 1959.
Un territorio senza pace, ma una popolazione che si definisce allegra, amante degli scherzi e delle battute di spirito che accoglie con atteggiamento ospitale i molti visitatori arrivati in aereo da Pechino, unico mezzo per giungere a Lhasa.
Sotto un sole quasi sempre implacabile i fedeli si prostrano davanti all'antico luogo sacro del buddismo, il tempio di Jokhang. Devozione totale, concentrazione assoluta, spiritualità profonda, coltivata per secoli, movimenti ripetuti all'infinito, rasenti il terreno, come bruchi che si inarcano per proseguire i cammino.
I cinesi, purché non si parli del Dalai Lama, rispettano la religione buddista. Un conto è la fede, un altro è la politica. E su questo Pechino non transige.

Augusto Dell’Angelo
Augusto.dell@alice.it