Il boia e l’Occidente: la parabola di Jihadi John

La rivelazione dell’identità del boia del califfato che ci eravamo abituati a chiamare “Jihadi John”, e che ora sappiamo essere Mohammed Emwazi, giovane cittadino britannico di origine araba, era solo questione di tempo. Lo scorso settembre, un mese dopo l’apparizione dei primi video horror in cui questo terrorista dotato di un acuto senso dello spettacolo si era presentato al mondo, le agenzie di sicurezza inglesi e americane avevano dichiarato di sapere chi fosse, ma di non poterne rivelare il nome. Secondo alcune fonti, commando di forze speciali sarebbero stati inviati in Siria per assicurare l’aguzzino alla giustizia, evidentemente invano. Lo scioglimento di questo mistero ci lascia però alle prese con tre domande non banali. La prima è quella che sta assillando tutti i governi europei: com’è possibile che un individuo cresciuto in Occidente diventi il nemico numero uno dell’Occidente? Nel caso di Emwazi, il quesito è reso particolarmente spinoso dai dettagli biografici emersi nelle ultime ore grazie al lavoro della stampa britannica. Contrariamente all’assunto caro a molti, Emwazi non è affatto un immigrato di seconda generazione deprivato e marginale, la cui inclusione sociale sarebbe fallita a causa delle discriminazioni, dell’ingiustizia, delle diseguaglianze economiche. Tutto il contrario. La sua famiglia è di classe media, benestante, ed è stanziata in una zona come West London dove il prezzo degli appartamenti può sfiorare il milione di sterline. Niente banlieues, niente ghetti, ma una storia all’insegna di un’apparente normalità e persino di mobilità sociale. Questo punto è ben illustrato dalla formazione di Emwazi: una scuola primaria di ispirazione cristiana, un istituto superiore di prim’ordine, un’università di primo piano. Nessun fallimento scolastico: i buoni risultati raccolti negli studi gli assicurano invece una laurea in informatica, un settore che poteva dunque garantire l’accesso a mestieri niente affatto subalterni. Invece no. Questo ragazzo che i più ricordano come socievole, ben vestito, che non disdegnava sguardi ammiccanti alle coetanee, ad un certo punto della sua vita ha imboccato una strada senza ritorno: la radicalizzazione. Il clima che si respira all’Università a cui era iscritto Emwazi, quella di Westminster, offre alcuni indizi. È documentata la colonizzazione dell’ateneo da parte di ragazzi estremisti, vicini a gruppi come Hizb ut-Tahrir, la cui penetrazione raggiunge un livello tale da garantire l’elezione di un proprio rappresentante a capo del sindacato studentesco. Oltre alle frequentazioni universitarie, alla deriva di Emwazi contribuisce anche il sottobosco islamista del quartiere in cui risiede. Nella zona occidentale di Londra si intrecciano fili che connettono la capitale con il franchising somalo di al-Qaida, i famigerati al-Shabaab. Polizia, intelligence e magistratura monitorano questo ambiente, certificandovi la presenza di un network estremista in cui era invischiato anche Emwazi. Vi fanno parte soprattutto soggetti originari dell’Africa orientale, intenti a reperire manodopera, fondi ed equipaggiamento per il jihad somalo. Al vertice c’era Bilal al-Berjawi, nato in Libano ma cresciuto a Londra sin dalla tenera età. La sua ascesa a posizioni di leadership tra gli Shabaab lo trasforma in un bersaglio degli USA, che con l’aiuto di un drone lo tolgono dalla circolazione nel gennaio 2012. Tra i militanti di questa frangia islamista ci sono anche due somali che, a due settimane dal clamoroso attentato di Londra del 7 luglio 2005, speravano di fare il bis. Gli incartamenti di un processo intentato per smantellare la rete certificano l’attiva collaborazione del futuro Jihadi John, definito testualmente come una minaccia per la società. Ma le prove contro di lui non sono sufficienti, manca quel che gli americani chiamano la pistola fumante. La parabola di Emwazi può dunque svilupparsi nella direzione che sappiamo. Il giro di boa avviene nell’agosto 2009, poco dopo la laurea, quando il giovane parte per la Tanzania insieme a due amici, destinazione probabile la Somalia. Ma la spedizione non riesce: i tre vengono bloccati all’aeroporto, interrogati e rispediti in Europa. All’arrivo, trovano ad attenderli gli agenti del MI5 britannico. In un colloquio di cui sono emersi i contorni, Emwazi viene accusato di voler entrare nei ranghi degli Shabaab. Lui nega, ma da quel momento l’intelligence, pur costretta a mandarlo a casa, lo sorveglia. Col fiato sul collo, Emwazi decide di tornare nel paese di origine, il Kuwait, dove lo aspetta una fidanzata combinata dalla famiglia e un lavoro nel settore informatico. Dopo qualche mese torna a Londra, dove incoccia nuovamente nelle spie di Sua Maestà. Il pendolo tra il paese natio e quello di accoglienza va avanti un altro paio di volte, ma le autorità ora prendono provvedimenti, inserendo il nostro nella lista dei sospetti terroristi e ritirandogli il passaporto. Ciononostante, all’inizio del 2013 Emwazi riesce a dileguarsi in Turchia, da cui poi si unirà allo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, il famigerato ISIS. La sua carriera nel futuro califfato comincia col ruolo di carceriere degli ostaggi occidentali, che lo battezzano col nome che gli assicurerà una notorietà mondiale: Jihadi John. Si distingue per zelo: alcuni prigionieri poi liberati riferiscono il suo piacere nel praticare il metodo di tortura del “waterboarding”. Questi galloni gli consentono una rapida ascesa nell’organizzazione, dove acquisisce lo status di protagonista ed emblema della violenza jihadista. È il 19 agosto del 2014, quando l’Occidente assiste all’entrata in scena del boia nero, che davanti ad una telecamera intimidisce Obama e decapita James Foley, giornalista freelance di Boston. Nel curriculum di Emwazi si aggiungono in rapida sequenza altre esecuzioni efferate, in un serial feroce e spettacolare. Il suo marcato accento londinese pone l’Occidente di fronte al mistero di cui abbiamo parlato prima: la barbarie di un informatico del Vecchio Continente che aderisce alla sanguinaria missione di un autoproclamato califfo. Questo è solo il primo dei nodi sollevati dal percorso di Jihadi John. Il secondo traspare dal dibattito che sta impazzando in Gran Bretagna, dove tutti si chiedono come mai un soggetto noto alle autorità per la sua brama di diventare un jihadista sia riuscito ad eludere la sorveglianza e a raggiungere la Siria. Come ha evidenziato tra gli altri il New York Times, qui emergono tutti i limiti di un sistema che non potendo ripudiare lo stato di diritto non può perseguire efficacemente gli aspiranti terroristi, non almeno senza prove sufficienti per neutralizzarli. Di qui il dilemma: le democrazie occidentali sono in grado di far fronte alla sfida di un estremismo che recluta i suoi adepti in mezzo a noi? Possono, i nostri paesi, trovare un equilibrio tra la necessità di assicurare la sicurezza e l’esigenza di mantenere le garanzie di cui godono tutti i cittadini? Alle prese con una minaccia esistenziale, di cui la strage di Charlie Hebdo ha mostrato tutta la portata, i paesi occidentali stanno ora cercando di introdurre norme stringenti, che rendono illegale e quindi perseguibile lo status di foreign fighter o di sostenitore del jihadismo. L’Italia ha fatto un passo in tal senso poche settimane fa, varando un pacchetto antiterrorismo che recepisce le linee guida dettate lo scorso settembre dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La questione delle norme di contrasto del terrorismo si intreccia con un’altra non meno delicata: per fare prevenzione occorrono mezzi adeguati, anche numericamente, alle proporzioni del problema. A quanto pare, le agenzie di sicurezza non possono monitorare tutti i sospetti. Sono troppi, e chi li deve seguire troppo pochi. È inevitabile dunque che soggetti apparentemente non di primo piano sfuggano dai radar. Era già capitato con i fratelli Kouachi, artefici dell’attacco a Charlie Hebdo, da tempo noti nei quartier generali dell’intelligence. Ed è accaduto con Jihadi John, sfuggito alle maglie di Scotland Yard e del MI5. In attesa di capire se l’Europa riuscirà ad evitare nuovi bagni di sangue in casa propria, non resta che evidenziare la terza questione posta dal caso di Emwazi. È possibile che, di fronte alla prova conclamata di un terrorismo che viola i fondamenti della convivenza e della stessa umanità, emerga puntualmente qualcuno pronto a difenderne le ragioni? È successo anche stavolta, con la controversa organizzazione britannica “Cage” che ha pensato bene, dopo la divulgazione dell’identità di Emwazi, di indire una conferenza stampa per spiegare la propria verità. Il tagliagole dell’ISIS era stato maltrattato, sostiene Cage, riferendo degli interrogatori subiti da Emwazi prima che lasciasse il paese. La tesi che si vuol far passare è semplice: il jihadismo è l’inesorabile conseguenza, oltre che del disagio patito dalle comunità musulmane in Europa, dell’operato troppo determinato delle forze anti-terrorismo. Qualcuno ha pensato bene di replicare a queste dichiarazioni con un semplice ragionamento: risulta che Martin Luther King, anch’egli vessato dalle forze dell’ordine, si sia vendicato decapitando un cittadino americano? Sta all’intelligenza del lettore stabilire chi abbia ragione e chi no.

Marco Orioles