Friuli, una desolante piazza d’armi

CARTOLINA_FORTEZZA_FVG_1022x766Recensione di Gregorio Piccin al libro curato da Moreno Baccichet: "Fortezza Fvg. Dalla guerra fredda alle aree militari dismesse", a cura di Moreno Baccichet. Edita sull'ultimo numero dell’edizione italiana di “Le Monde Diplomatique”.

Fortezza Fvg raccoglie buona parte degli atti dell’omonimo convegno organizzato da Legambiente a Pordenone il maggio dello scorso anno per affrontare il tema della più estesa struttura militare difensiva approntata in Italia dopo il 1945. Si tratta di quella intricata rete di caserme, casermette, poligoni e bunker costruite in Friuli per fronteggiare una inverosimile aggressione dell’Armata rossa, oggi oramai dismesse e lasciate in totale stato di abbandono.
Dagli anni sessanta venne concentrato in Friuli il 70% della forza operativa militare nazionale mentre a partire dagli anni settanta venne costruita una rete frontaliera di bunker con la funzione di “fornelli” per attivare mine nucleari in grado di vaporizzare una consistente porzione di territorio regionale.
Le incontenibili servitù militari che necessariamente accompagnarono questo processo di militarizzazione furono attivate utilizzando una legge fascista del 1931 ed arrivarono a sommergere il 40% del territorio regionale con la designazione delle così dette “zone militarmente importanti”. I pesantissimi vincoli e le ipoteche che quella legge poneva, unite al totale disinteresse dei comandi per il territorio bloccarono lo sviluppo socio-economico di una regione già marginale e spinsero in più occasioni al confronto diretto popolazioni ed enti locali da una parte e la sprezzante ragione atlantica dall’altra. Solo nel 1976, con l’approvazione della Legge 898, questo peso venne appena alleggerito costituendo il Comitato misto paritetico Regione/Autorità militare e cancellando il vincolo di “zone militarmente importanti” su 29 comuni. Ma soprattutto, fu sempre nel 1976 che questa elefantiaca pressione militare restituì a se stessa ed ai territori un po’ di senso (forse l’unico) quando si dimostrò insostituibile nel soccorso e nella rimozione delle macerie causate dal tremendo terremoto che colpì il Friuli proprio quel anno.
Questo volume è quindi il punto di arrivo di un percorso di inchiesta e cartografia partecipata dove la mappatura dei siti interessati dalla dismissione ha interessato enti locali, studiosi, singoli cittadini invitati a segnalare anche i siti più interni e sconosciuti. L’approccio corale, multisciplinare e multimediale è senza dubbio l’aspetto più pregevole di questa inchiesta dal basso.
Ma il senso di questo lavoro non è la mappatura della dismissione in sé, che comunque sopperisce ad una ventennale mancanza dello Stato bensì l’affermazione della necessità di un piano razionale per il recupero, la conversione oppure la demolizione delle strutture.
Oltre ad alcuni casi di avvenuto recupero o conversione delle aree militari dismesse messe in campo da amministrazioni locali particolarmente attente, il libro presenta alcune proposte interessanti: la più significativa e di ampio respiro è senza dubbio la realizzazione di un Museo nazionale della guerra fredda con una doppia dislocazione (urbana e diffusa sul territorio) e con la prospettiva ambiziosa e delicatissima di mettere insieme storia, oggetti, cimeli, documenti, testimonianze, architetture militari; delicatissima perchè il rischio più grande è che tutta l’operazione possa trasformarsi nella solita odiosa e storicamente scorretta autocelebrazione (si prenda a pessimo esempio, in questo senso, il Museo della Grande guerra di Gorizia).
Unico limite di questo prezioso lavoro è la totale assenza di una riflessione sul fatto che presente e passato si guardano allo specchio. Nel momento in cui l’Italia dismetteva la leva (con funzione territoriale/difensiva) per passare alla professionalizzazione delle Ff.aa, la guerra da “fredda” diventava “calda”: prima del 1989 costruivamo una fortezza inutile dal punto di vista strategico (già dagli anni sessanta qualsiasi conflitto tra i blocchi avrebbe significato la cancellazione nucleare reciproca), dopo quella data siamo diventati un paese apertamente belligerante e corresponsabile di guerre d’aggressione illegittime, destabilizzanti e spesso contrarie agli stessi interessi nazionali. Siamo passati cioè da una supina militarizzazione dei territori ad una incostituzionale belligeranza. Passato e presente continuano ad essere legati, mani e piedi, alle esigenze strategiche della nostra superpotenza di riferimento ed alla Nato, sua diretta emanazione. Credo che qualsiasi riflessione sulla “conversione postuma” post 89’ debba necessariamente legarsi ad una riflessione seria sulla “conversione preventiva” delle installazioni militari straniere.