Fioccano le firme per salvare l’italiano

Alberto Sordi in "Un'americano a Roma"

Alberto Sordi in "Un'americano a Roma"

Di Lucia Burello.

Sull aposta elettronica degli italiani, una petizione che invita alla salvaguardia della nostra lingua: "#dilloinitaliano" ha raggiunto già 35 mila adesioni.

Imparare-linglese-Differenza-Work-Job-300x1521E' con vivo interesse che segnaliamo una petizione che in questi giorni sta facendo il giro di tutte le caselle di posta elettronica. Anche perché ha già guadagnato ben 35 mila adesioni. Con il titolo #dilloinitaliano, alcuni privati invitano il governo, le amministrazioni pubbliche, la stampa, le imprese a parlare un po’ di più in lingua nazionale.
In sintesi, l'invito rivolto a tutti è quello di ridurre ai minimi termini i neologismi inglesi. Motivo? Mantenere la nostra cultura, la memoria, la nostra diversità, le nostre specificità per sopravvivere.
L'iniziativa che esorta a gran voce anche l'intervento dell'Accademia della Crusca, ci ricorda quando, nel 2008, morì definitivamente la lingua eschimese. Se ne andò, infatti, assieme alla scrittrice Marie Smith, al tempo ottantasettenne e ultima nativa di madrelingua Eyak, attivista impegnata nella lotta per la difesa degli idiomi “autoctoni”.
Al tempo, la figlia della scrittrice confessò con rammarico: «nessuno dei miei fratelli ha imparato l'Eyak poiché siamo cresciuti in un epoca in cui è considerato sbagliato parlare un'altra lingua che non sia l'inglese».
Insomma, quella della Smith, intenta a battagliare anche contro gli insegnanti che privilegiavano l'inglese, fu una clamorosa sconfitta.
Forse non si riflette mai abbastanza, ma l'imporsi di una cultura su un altra, è come una dichiarazione di guerra: chi subisce perde dignità e origine, pagando infine un costo altissimo: la libertà.
Churchill, nel 1943, disse che «il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento».
Ecco allora che siamo passati dall'italianizzazione forzata delle minoranze durante il fascismo, all'inglesizzazione sofisticata e trendy degli italiani di oggi. Ma non dimentichiamo che per distruggere un popolo non esiste soltanto il genocidio dei corpi, ma anche quello delle menti e del loro linguaggio. hqdefault
E l'Italia, già morente perché incapace di conservare e valorizzare il suo patrimonio artistico, sta ora ricevendo il colpo di grazia con l'invasione della elementare sintassi anglofona.
Il campanello d'allarme, anzi il campanaccio, lo avevamo già sentito sette anni fa con la crescente discriminazione verso l'italiano delle nostre Istituzioni educative: al tempo, infatti, il Rettore del Politecnico di Torino, per l'Anno Accademico 2007/2008, richiese il pagamento delle tasse solo a coloro che intendevano seguire i corsi di laurea in italiano, mentre agli studenti che volevano seguire i corsi in inglese furono abbuonati ben mille 500 Euro.
E se oggi si desidera partecipare ai bandi di gara del Miur, ad esempio, bisogna presentare i relativi progetti in lingua inglese, altrimenti non vengono nemmeno protocollati.
La nostra inglesizzazione, dunque, procede inesorabilmente.
E allora ci ritroviamo in un quotidiano fatto di “news” invece che di “notizie”, con un governo che fa la “social card” e indice “election day”. Con colleghi che parlano di steps, abstrct, authority, background, bipartisan, brand, default, e via discorrendo e annunci sul giornale che ci informano che: «La socialità virtuale di Twitter e Facebook sarà replicata anche nello spazio fisico dei cluster grazie a vari iPad e tutti i tweet che passeranno attraverso account @ e verranno mostrati "live" sul maxi video...». Insomma, di fronte a questa fluida sintassi “squisitamente italiana” c'è da smarrirsi sul serio.
E la contaminazione con l'inglese ha raggiunto livelli tali che le nuove generazioni non conoscono più le parole o il significato della loro lingua madre.
Nel 2009 dopo il test d'ingresso per le facoltà a numero chiuso, il magnifico rettore dell'ateneo bolognese, Ivano Dionigi constatò scandalizzato: «I giovani che arrivano dalle scuole superiori sono semi-analfabeti». L'8% dei nostri laureati, infatti, non è in grado di utilizzare pienamente la scrittura. Anzi, peggio: 21 laureati su 100 non vanno oltre il livello minimo di decifrazione di un testo, ovvero rischiano l'analfabetismo funzionale, cioè la perdita degli strumenti minimi per interpretare e scrivere un brano anche semplice. E la percentuale sale tra i diplomati: 30 su 100 possono diventare semi-analfabeti di ritorno. Una delle cause, che va a pari passo con l'introduzione di neologismi stranieri, è l'abbandono della grammatica e della fatica della sintassi: già alle medie non si studiano quasi più. E guai se non si promuove chiunque.
Ma leggendo un articolo di Maurizio Corsetti, apparso già sei anni fa sulla Repubblica, è forte il sospetto che le percentuali sopra-citate siano, addirittura, sottostimate.
itagliano-500x254Dopo la “scoperta” del magnifico Rettore Bolognese, infatti, Corsetti si prese la briga di verificare il livello dell'italiano scritto dei candidati. Ecco alcune chicche sintattiche partorite durante i test d'ammissione dai neo-accademici, ovvero i medici, gli ingegneri e gli insegnanti di domani.
Alla richiesta di coniugare il verbo cuocere (e già domandare questo a un test d'ammissione universitario la dice lunga) un risultato fu: «Io cossi tu cuocesti egli cosse».
Ma continuano con gli esercizi di sintassi: «Se io sarebbe più abile, tu mi affiderai una squadra». Ma anche: «Se tu saresti più alto, potessi giocare a pallacanestro».
«Non so qual'è la prima qualità di un'uomo».
Che dire? Ecco un altro sistema per restare senza parole.