ESODO AFRICANO DALLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE

Il 12 ottobre scorso, il parlamento del Burundi ha votato a favore della revoca dell’adesione allo Statuto di Roma, trattato che prevede, da parte dei 124 paesi membri, l’accettazione della Corte Penale Internazionale de L’Aja (CPI) come organismo giurisdizionale in caso di violazioni della Convenzione di Ginevra, ossia crimini di guerra, contro l’umanità o genocidio.
Si è trattato di una decisione presa, non a caso, dopo l’uscita del rapporto delle Nazioni Unite che riferisce più di 560 esecuzioni avvenute a partire dal mese di aprile 2015, quando il presidente uscente Pierre Nkurunziza ha deciso di candidarsi alla carica per la terza volta, violando la costituzione che limita a due i mandati presidenziali. Il rapporto fornisce “numerose prove di gravi violazioni dei diritti umani”, possibili crimini contro l’umanità commessi dal governo del Burundi che ha immediatamente rifiutato il documento e che non ha esitato a vietare l’ingresso nel paese di tre ispettori dell’ONU.
Le reazioni sono state immediate: da una parte, l’immancabile richiesta di dialogo da parte delle Nazioni Unite e l’invito del segretario generale Ban Ki-moon a rivedere questa decisione. Dall’altra parte, la risposta di altri paesi africani che hanno annunciato di volere riprendere in considerazione la loro adesione alla Corte Penale Internazionale. Così il Sudafrica ha annunciato di avere  avviato le procedure di ritiro dalla Corte.
Anche in questo caso, la decisione avviene in seguito alle polemiche scoppiate per la visita del presidente del Sudan Omar al-Bashir a Johannesburg, il 14 giugno 2015, per partecipare a un vertice dell’Unione africana (Ua). Il presidente del Sudafrica Jacob Zuma è stato accusato di avere ignorato l’ordine di arresto emesso nei confronti di al-Bashir sulla cui testa pendono ben due mandati della CPI, emessi nel 2009 e nel 2010, per i crimini commessi nella regione del Darfur. La decisione di Pretoria avviene proprio un mese prima del processo in cui i giudici sudafricani dovranno decidere sull’operato del governo riguardo la questione al-Bashir.
E se non bastasse, pochi giorni dopo anche la repubblica islamica del Gambia ha espresso la stessa intenzione, accusando il Tribunale di “persecuzioni e umiliazioni nei confronti delle persone di colore, sopratutto degli africani”. L’accusa rivolta alla CPI è quella di essere “uno strumento volto alla persecuzione dei soli leader africani” e di non voler occuparsi dei crimini commessi dall’Occidente.
Le critiche contro l’operato della CPI non sono nuove: il presidente ugandese Yoweri Museveni, nel suo discorso di insediamento a maggio di quest’anno, non ha esitato a definire la Corte "inutile", evitando pure lui di arrestare il presidente sudanese al-Bashir presente per l’occasione.
Il governo del Kenya, attualmente sotto inchiesta per crimini contro l’umanità in seguito alle violenze registrate dopo le elezioni del 2007, sta valutando la sua uscita.
Altri paesi, tra cui la Nigeria, il Senegal, primo stato a ratificare lo Statuto di Roma, e la Tanzania, hanno invece reiterato il loro supporto alla Corte Penale Internazionale, sottolineando la sua importanza per combattere gli atroci crimini commessi nel mondo.
È innegabile che vi sono attualmente molti crimini impuniti e che da quando lo Statuto di Roma è entrato in vigore nel 2002 le uniche 4 persone condannate per crimini contro l’umanità e crimini di guerra sono tutte africane – tre provengono dal Congo e una dal Mali. Inoltre, delle 10 inchieste attuali, 9 riguardano l’Africa e una l’ex repubblica sovietica della Georgia.
È tuttavia anche vero che i casi attualmente messi sotto esame, prima che venga aperta un’inchiesta, non riguardano stati africani, ma l’Afghanistan, l’Ucraina, la Colombia, il territorio Palestinese e i presunti crimini commessi dalla forze britanniche in Iraq.
Prima della revoca ufficiale dal trattato c’è una finestra di un anno, ma se dovesse essere confermata, potrebbe scatenare un effetto domino in tutto il Continente africano. Si tratterebbe di una rivoluzione all’interno della Corte la cui legittimazione dipende dall’adesione dei suoi membri, 34 dei quali sono paesi dell’Africa.
Ken Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, ha affermato che se gli stati africani decideranno di lasciare la Corte anziché tentare di riformarla, “non vi sarà più giustizia per gli innumerevoli africani che hanno subito omicidi, torture, stupri o sono stati costretti a diventare bambini soldato”.

Danielle Maion