Dossier Libia: Le colpe dell’occidente nei drammi africani e la vendetta postuma del Rais

C'è un motivo strategico preciso sul fatto che le possibili azioni militari di terra in Libia vengono viste con estrema prudenza. é una sorte di vendetta postuma di Mu'ammar Gheddafi. Il fatto è che tutte le tribù e le armate che si affrontano in quel martoriato paese hanno messo le mani su una quantità enorme di armi, nella strategia politica megalomane del defunto Rais, infatti, la Libia doveva essere paese leader, una sorta di potenza militare d'area. Per questo nonostante il suo esercito non fosse numericamente enorme ed i libici poco più di sei milioni, aveva degli arsenali in grado di armare forze almeno cinque volte superiori alle sue. E dato che i vari embarghi non sono mai stati un problema per chi dispone di molti dollari, per il “Colonnello” non era stato difficile approvvigionarsi di armi moderne e stoccarle nei vari depositi disseminati nell'enorme territorio libico. Per le bande è stato sufficiente penetrare dei bunker rimasti incustoditi e fare man bassa di ogni genere di armi, anche pesanti, forse anche chimiche. Insomma un eventuale azione militare, anche solo mirata alla distruzione dei barconi, come vorrebbe Matteo Renzi e forse gran parte della diplomazia europea, è cosa più facile a dirsi che a farsi. Del resto ora che i tamburi di guerra hanno ripreso a suonare dopo il dramma della strage dei quasi 1000 profughi annegati sabato scorso 18 aprile, le azioni di terra e non solo dall'aria, sembrano inevitabili. Il motivo però non è diverso da quello che già mesi fa agitava le notti insonni degli osservatori di questioni nord africane, certo oggi c'è il casus belli, ma siamo certi che una risposta militare spot sia la scelta migliore? Difficile dirlo, anche se l'insabbiamento del problema che sembra essere stata la linea dell'Europa fino ad oggi, non poteva risolvere nulla se non evidenziare quanto l'Italia pesi poco in Europa. Ed anche se la stampa italiana, malata di sensazionalismo, in gran parte è digiuna di competenze specializzate sul Nord Africa, vengono espressi pareri e dettate ricette basate sulle posizioni dominanti. Ricette spesso dannose perchè orientano l'opinione pubblica creando una sorta di tifo fra interventisti e non, come se fossimo alla vigilia di una sorta di nuovo irridentismo. Si leggono commenti scritti da chi a malapena ha guardato l'atlante geografico, esperti che non si sono mai recati in Nord Africa, in Libia, non dico nei tempi di guerra, ma nemmeno in quelli di pace e che non hanno potuto verificare come già in costanza di dittatura, quel Paese fosse tenuto insieme solo dalle minacce, dalla violenza e dalla corruzione cresciuta all'ombra del suo dittatore e della sua famiglia. Così abbiamo un fior fiore di commentatori televisivi che pontificano spesso a sproposito e più spesso solo per sentito dire, dando benzina al motore perverso della paura, strumentalizzato ad arte da chi non trova di meglio che basare la propria fortuna elettorale e politica, sulle diseguaglianze etniche e religiose. In realtà il motivo di un intervento, ma ben pianificato e non certo solo militare, non dovrebbe essere la paura degli immigrati e dell'invasione del “sacro” suolo europeo, e neppure solo dell'emergenza umanitaria, ma il fatto che la situazione va affrontata, anzi lo andava da tempo non con provvedimenti “tampone”, perchè la Libia destabilizzata diventa un detonatore micidiale per il contesto regionale africano. E' innegabile che le ricadute del collasso traumatico del regime di Gheddafi, applaudito e generato dall'occidente, peseranno a lungo. Una Europa miope che ha pensato solo a come spartirsi diversamente le risorse petrolifere. L'Italia aveva tutto da perdere da questo punto di vista in quella guerra, ma l'unica preoccupazione di Berlusconi, allora al governo, era quella di aver tradito “l'amicizia” godereccia con il dittatore di Tripoli o almeno questo era il tenore delle sue dichiarazioni. La fine di Gheddafi , pilotata dalla Francia, ha però colpito a sud della Libia molto più che a nord, ma la stampa nostrana che non riesce ad andare con la vista oltre il proprio ombelico, non si è resa conto di nulla, almeno fino a quando qualcuno su internet non ha cominciato ad inserire vessilli del califfato nero sulle foto dei simboli della cristianità. Poi in un crescendo si è passati alle esecuzioni dei cristiani che quasi per una sorta di strana autocensura, trovano spazi risicati nelle cronache e solo quando Papa Francesco ricorda al mondo che i martiri non sono solo quelli del primo secolo dopo Cristo. Una disattenzione della politica e dei media che forse è determinata dal fatto esecrabile che in fondo si dice: saranno pure cristiani, ma tutto sommato prima sono africani. Come quei ventotto profughi Etiopi che l'Isis si è preso il disturbo di uccidere prima che a farlo fossero gli scafisti ed il mare, così tanto per essere sicuri. Ma erano neri, quindi Isis o non Isis la notizia non è degna del clamore, quasi si trattasse di una bega di cortile. Cortile, ed in questo c'è tragica miopia, che è però un continente con un miliardo di persone. Ma polemiche a parte, la domanda da farsi per capire quali processi hanno portato alla attuale situazione è semplice: In che modo la fine della dittatura quarantennale di Gheddafi ha destabilizzato l’Africa? La risposta ha solo un nome, armamenti. Una cascata di armi vendute in cambio di oro nero, con una loro diffusione, prima ad opera del colonnello e poi dalla tante fazioni presenti in Libia. In una recente analisi di Le Monde Diplomatique, lo si spiega bene con un riferimento alle situazioni belliche deflagrate in Africa dal 2011 a oggi. Un rapido elenco basta per farsi un’idea di dove siano approdati quegli strumenti di morte: Mali, Repubblica Centrafricana, Niger, Ciad, Camerun, Burkina Faso, Sud Sudan e giù fino alla Nigeria con il proliferare di Boko Haram. Il dossier accurato di Le Monde Diplomatique, lettura che assieme ad altre andrebbe consigliata a chi spesso straparla di estero, offre un punto di vista inquietante sull’armamento moderno e pesante che ha arricchito in pochi anni gli arsenali di tutta una galassia di gruppi radicali di fede islamista. Questi, di punto in bianco, a livello strategico sono diventati più forti e meglio armati di coloro che li combattono, perfino degli eserciti regolari dei Paesi dove operano indisturbati. Soldati spesso mal pagati e per questo facilmente corruttibili, mal addestrati, per non parlare poi dell'assenza di motivazioni culturali e sociali, magari solo in termini di amor patrio. Con il disfacimento della Libia si è aperto un vero e proprio discount delle armi e i traffici illeciti hanno fatto il resto. Tratta di esseri umani e droga principalmente, portano il contante necessario a pagare l'acquisto delle armi e il salario a un’orda di disperati, di giovani senza futuro indottrinati a dovere da predicatori radicali che forniscono una visione distorta e aggressiva dell'Islam. Giovani che diventano la manovalanza per ogni genere di banda terroristica. Di chi le responsabilità storiche di tutto questo? Certo l'idea di rovesciare Gheddafi senza una pianificazione del dopo, è stato il detonatore, ma i mercanti di armi ancora prima avevano fatto il resto. Non parliamo di venditori occulti, ma degli Stati che avevano fornito il “Colonnello” di ogni genere di ordigni. Fra questi Paesi in Europa primeggia l'Italia che, dati ufficiali Ue alla mano, tra il 2005 e il 2009 è stato il Paese dell’Unione Europea che ha venduto più armi al colonnello. Le stesse armi che ci vedremo puntare contro nel caso di un intervento di terra per bloccare i barconi. Dubbi sulla veridicità della denuncia? Nessuno, dato che nel 2009 la sola azienda Beretta è stata autorizzata all'esportazione di oltre 11mila tra pistole e fucili semiautomatici, consegnati alla polizia di Gheddafi. Certo non erano più in vigore forme restrittive di embargo di armi, ma le violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza libiche erano denunciate da tutti gli organismi internazionali, ma c'è di più, erano gli anni dell'accordo fra il governo Berlusconi-Maroni ed il colonnello Gheddafi per il blocco dell'immigrazione. Ricordiamo allora ai tanti smemorati che l'allora premier Silvio Berlusconi diceva e si vantava: “Gli accordi con la Libia per il rimpatrio degli immigrati clandestini li ho gestiti io, li ho sottoscritti io, Maroni è d'accordo ed esegue quelli che sono gli accordi presi direttamente tra me e il leader libico Gheddafi". Ma se nel 2009 ci eravamo limitati alla fornitura di pistole e mitragliette, il primo vero colpo lo avevamo messo a segno già nel 2006, vendendo all'esercito libico 10 elicotteri per un importo di 80 milioni. Ma di più, all'articolo 20 del Trattato di cooperazione e amicizia firmato nel 2008, si prevedeva "un forte e ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari". In quello stesso anno il fatturato delle fabbriche d'armi italiane con la Libia era già di 93,2 milioni di euro (56,7 l'anno prima), somma che faceva del Paese africano uno dei nostri migliori clienti. Importante il successivo accordo siglato il 28 luglio 2009 tra Finmeccanica e Lybian Investment Authority (il fondo sovrano libico) per una joint venture destinata a operare in tutto il Medio Oriente nel settore della Difesa. Ma l'Italia non è l'unica colpevole nell'aver rimpinguato gli arsenali del “colonnello” tutta l’Ue ha concesso licenze di esportazione di armi alla Libia per un valore di 834 milioni di euro nei primi 5 anni dopo l’eliminazione dell’embargo nell’ottobre 2004. Il 2009 è stato l’anno con le vendite più significative, ben 344 milioni di euro, dei quali 277 milioni in 5 anni all’Italia. Non male neppure la Gran Bretagna 240 milioni di euro di armi al Rais nei soli primi 10 mesi del 2010. E la Francia? Tanto per distinguersi i nostri cugini d'oltralpe si fecero trascinare in una querelle finita non a “tarallucci e vino” ma a “fondi elettorali ed armi”. Vale la pena ricordar, era il 2007, il caso delle cinque infermiere bulgare arrestate e condannate a morte in Libia, con la folgorante e sfolgorante missione a Tripoli di Carla Bruni Sarkozy e la successiva liberazione delle infermiere fra lustrini e cotillon e con gli applausi del mondo? Bene, sarà un caso, ma una una settimana esatta dopo la liberazione delle bulgare, Sarkozy firmò con il Rais una fornitura di armi francesi per il valore di 300 milioni di euro. Tra Sarkozy e Gheddafi seguirono poi altri accordi, alcuni alla luce del sole, altri inconfessabili emersi solo recentemente. Ma in ogni caso quello siglato con l'aiuto della italiana Carla Bruni passerà alla storia per l'eleganza e la bellezza della interlocutrice del Rais che come è noto non era insensibile al fascino femminile. Ma quello di fornire strumenti di morte all'inaffidabile ed ineffabile dittatore libico, secondo il principio che pecunia non olet, in realtà era una corsa globale. Anche il colosso Rosoboronexport, holding statale russa che si occupa dell’export di armi, dichiarava a quei tempi cifre miliardarie nelle esportazioni di armi al colonnello e non parliamo di pistole e fucili, ma di armi pesanti e micidiali missili Scud. Tutta merce ora nelle mani della diaspora tribale libica. Un altro episodio che non si può dimenticare è quello che vide Gheddafi nel 2008, dopo essere passato da Roma, volare a Mosca per incontrare l'allora presidente russo Medvedev. Tenda piantata entro le mura del Cremlino e una promessa di fornire una base d'appoggio per le navi russe nel Mediterraneo. In cambio lo shopping militare: aerei, missili e carri armati per quasi 1,5 miliardi di euro. Ma i libici devono avere apprezzato i prodotti russi perché non sono mancate le repliche: nel 2009, 730 milioni di euro spesi da Gheddafi soprattutto in caccia Sukhoi; nel 2010, 1,3 miliardi di euro per altri aerei e carri armati, ma anche per sofisticati sistemi d'arma per la difesa antiaerea. Anche i cinesi, ovviamente partecipavano al banchetto, tre società statali cinesi (Norinco, CPMIC e China XinXing Import & Export Corp) stavano trattando una commessa a 200 milioni di dollari per rifornire l’ex rais di Tripoli di lancia missili, missili anticarro e altri equipaggiamenti militari, tra cui il QW-18, la versione cinese del missile terra-aria Stinger, trattativa che non si era fermata neppure dopo la situazione di guerra in Libia. Lo scoop lo fece un’inchiesta del 2011 del New York Times. Ma non solo denunce giornalistiche dagli Usa. Nel 2008 l'azienda americana General Dynamics firmò un contratto da 150 milioni di euro per fornire alla Libia i più moderni sistemi di comunicazione. L'attrezzatura era destinata in particolare alla Seconda Brigata d'élite, un corpo scelto agli ordini di Khamis Gheddafi, uno dei figli del Rais. E oggi con tutte quelle armi in circolazione ci troviamo a dover intervenire, del resto non farlo e rimanere con la testa nella sabbia non solo vorrebbe dire dover raccattare cadaveri a migliaia nel canale di Sicilia, ma affrontare una migrazione di dimensioni bibliche che grazie alla “lungimiranza” della politica italiana ci troveremmo, allo stato degli accordi, a dover gestire tutta sul territorio nazionale. Una diplomazia tricolore fino ad oggi incapace di far rimangiare all'Europa del Nord i protocolli di Dublino e che se questi non si modificheranno, si troverà con un doppio problema: sostenere centinaia di migliaia di profughi e respingere l'ondata di xenofobia che inevitabilmente si genererà grazie ai dispensatori di paura. Quei politici incarnati principalmente da Salvini e Santanchè, ma perfino da alcuni sindaci del Pd, che per una manciata più o meno grande di voti, non esiteranno ad aizzare le folle contro il diverso invasore. Così le parole dette ieri in parlamento dal premier Renzi, perchè potessero risuonare oggi nell'incontro europeo, sono forse davvero l'unica ricetta. E' una ricetta pericolosa se non verranno usati tutti gli ingredienti. Non solo incursioni armate contro barconi e scafisti ed il salvataggio in mare dei disperati inermi profughi, ma anche una adeguata politica di accoglienza. Resta da capire, fatto non ininfluente, dove organizzarla e con chi questa accoglienza. Nella Libia in armi? Nel paesi di provenienza in guerra e carestia permanente? o in quelli di transito che di certo non se la passano meglio. Diciamolo, questa umanità ferita e terrorizzata in fuga da guerre e carestie è scomoda per tutti. Serve davvero uno sforzo ed una fantasia immane per trovare le soluzioni, ma non farcela sarebbe davvero la sconfitta della civiltà. Ma occorre però non dimenticare il recente passato, le responsabilità, perchè se la situazione si fosse gestita già all'epoca della tragedia di Lampedusa si sarebbero salvate non solo le vite dei mille del barcone affondato sabato scorso, ma anche quelle delle migliaia di annegati silenziosi dall'epoca Mare Nostrum a quella Triton e forse perfino le teste di quei 28 cristiani decapitati dai carnefici dell'Isis.