Viviamo nel mistero, con una tentazione: Dio

Musica, arte, letteratura, filosofia e scienza, da sempre a colloquio fitto con la morte e l'al di là.

pregareTutte le arti, nessuna eccezione, si sono confrontate con l’Oltre; sia per trarne ispirazione, sia come necessità di conoscenza, laddove cultura significa confronto continuo con la morte.
Ma quello che ci sembra interessante indagare, è la presenza dell’aldilà in filosofia e nelle scienze.
Da quando l’uomo ha cercato di dare forma e senso alla sua esperienza nel mondo con il linguaggio, il tentativo di dimostrare l’esistenza di Dio, è stato costante.
Kurt Gödel noto universalmente come uno dei più grandi logici di tutti i tempi, elaborò, addirittura, una formula per dimostrare l’esistenza di Dio, basata sulla logica formale. «L’affermazione che il nostro ego – scrisse al proposito il logico – consiste di molecole e di proteine, mi sembra una delle più ridicole mai sentite».
Più volte, infatti, nel corso della sua vita, lo scienziato espresse posizione teista, e la convinzione di una vita dopo la morte; pur condividendo l’idea di Russel che le religioni organizzate sono tutte più o meno dannose.
«Appare chiaro – scrisse invece Luigi Fantappiè, uno dei più grandi matematici italiani del Novecento, a proposito della sua nozione di “esistenza totale” formulata nel 1948 – che non tutta la realtà si esaurisce nello spazio-tempo dell’universo sensibile. Per poterla spiegare in tutta la sua completezza, bisogna dunque cercare uno schema più ampio al di là di questo».
«Perseguire, cercare l’Immagine, dimostra che si è rimasti al di qua dell’assoluto e che si è inadatti alla visione pura. – rifletté Emil Cioran - Ciò si capisce, dato che questa visione non è tanto senza oggetto quanto al di là di ogni oggetto. Si potrebbe anzi dire che ciò che essa ci permette di vedere è l’assenza senza confini di tutto ciò che può essere visto, la nudità come tale, il vuoto come pienezza o, meglio quell’ «abisso della sovraessenza» celebrato da Ruysbroek».
Il filosofo Ludwig Wittgenstein, con l’ormai celebre frase «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» aprì le porte alla trascendenza proprio come uno squarcio su una tela di Fontana.
«Il tempo della povertà – disse – consegue dall’impoverimento della vita, dalla perdita del suo carattere illimitato. Ci si impoverisce e si muore, se ci si colloca fuori dalle sorgenti arcane e vitali della propria vita, quando ci lasciamo stritolare dall’abbraccio mortale del mondo; quando il piano dei non-valori ci essicca e volatizza come in un forno crematorio. L’illimitatezza della nostra vita – conclude il logico austriaco – riposa nel nostro sguardo senza limiti; che sa posarsi intorno e illimitatamente guarda al di sopra del mondo. L’occhio è espressione di senso; in esso il cuore si concentra e infinitizza, divenendo il campo visivo dell’infinito dell’animo umano. Il valore non si svela nel mondo. Il mistico lo ricerca, ritraendosi dal mondo».
Insomma, un po’ come dire che a noi uomini, nella nostra ottusa cultura ben lungi da certe “esperienze verticali”, sfugge l’eternità. Forse, come diceva Cioran, la sola occasione mancata.
E chi lo sa: forse attribuire alla vita una bellezza più alta che alla morte, o meglio, al dopo morte, è il vero limite dell’uomo. Insomma, svolgendo lo sguardo all’ultimo epilogo della nostra esistenza terrena e all’intero corso della storia, credenti e non credenti si domandano: è possibile sapere che cosa resterà dell’uomo, una volta calato nella tomba? Cosa dobbiamo attenderci, al di là della morte? Se possiamo attenderci qualcosa.
Le domande le avevamo rivolte nel corso di una stimolante conversazione, a “un addetto ai lavori”, se così possiamo definirlo, un giovane sacerdote al tempo responsabile culturale dell’arcidiocesi di Udine, Alessio Geretti.
«L’esortazione rivolta dallo Zarathustra di Nietzsche – ci spiegò Geretti – suona inquietante: “Vi scongiuro, o miei fratelli, restate fedeli alla terra e non credete a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene!”. E’ d’obbligo prendere sul serio simili appelli a non sfuggire dalla realtà in nome di qualche illusione religiosa, chiudendo gli occhi davanti alla necessità di migliorare questo mondo, nello spazio e nel tempo.
La speranza nella vita eterna, prima ancora che illusoria, non sarebbe forse da combattere come pericolosa, per il fatto stesso di indicare altrove, non sulla terra, l’obiettivo ultimo del cammino dell’umanità?
Eppure i cristiani hanno la certezza della vita eterna e della resurrezione della carne. Dio, affermano, nella Rivelazione e in particolare in Gesù Cristo, ha detto una parola chiara sul destino ultimo dell’uomo, del cosmo e della materia. Di ciò i discepoli del Nazzareno sono così assolutamente certi da aver saputo in innumerevoli casi affrontare con serenità il martirio, nella convinzione che perdere la vita fisica non sia poi così grave, mentre sarebbe una sciagura immane perdere Gesù. Non a caso avere una tale speranza era considerata fin dagli inizi un tratto distintivo, una nota caratteristica dei veri discepoli di Cristo: “La speranza dei cristiani è la risurrezione della carne”, affermava in proposito Tertulliano.
Là dove il tempo dell’uomo e del mondo arrivano al momento conclusivo, – argomentava Geretti – la prospettiva della fine evoca sempre la questione del fine: il nostro passaggio sulla terra, drammatico e grandioso, povero e nobile, tormentato e incantato, ci espone in continuazione alla domanda sul senso della vita, della coscienza morale, del lavoro, dell’amore, del dolore, del morire. Perché vale la pena vivere? A questa domanda non si sfugge, ed ognuno di noi, con le parole e con gli atti, dichiara la propria risposta.
La domanda sul futuro dell’uomo è legata a tripla mandata alla domanda sul presente dell’uomo e a quella sulle sue origini. In ultima analisi, in ogni frattempo il valore e il sapore di quel che stiamo vivendo dipende anche da ciò che ora pensiamo che un giorno accadrà alla nostra morte personale a alla fine del mondo intero. Se poi non volessimo farci domande cercando la verità, possiamo certamente abbandonarci alla deriva dell’incoscienza, al naufragare, tutt’altro che dolce, in continue banalità, e di conseguenza all’ineleganza con cui nel nostro tempo ci auspichiamo che la nostra morte possa essere: rapida e indolore (non santa, come il Veni Sancte Spiritus insegna a chiedere). Che sia forse la rimozione della domanda sulla verità sull’eternità – si interrogava infine Geretti – il motivo di quel senso di insoddisfazione che sembra prevalere e diffondersi nella nostra società?».
«… com’è possibile – scrisse invece Cioran - che la modestia sia una virtù dei templi, quando una vecchia decrepita, che crede l’Infinito alla sua portata, s’innalza con la preghiera a livelli di audacia cui nessun tiranno ha mai osato aspirare? – e ancora - Signore, datemi la facoltà di non pregare mai, risparmiatemi l’insanità di ogni adorazione, allontanate da me questa tentazione d’amore che mi consegnerebbe per sempre a Voi… »
Ecco dunque, che questo nostro incessante interrogarsi, ci fa sospettare una cosa: non ci indurre in tentazione; preghiamo Dio. Ma forse ci sfugge che è proprio lui la nostra unica, vera, assillante, tentazione.