Tutto per un pugno di “si”, anche diventare allibratore delle paure

Più passano i giorni, più si avvicina il 4 dicembre più sale la febbre. Non solo i vari comitati del si o del no sparano le loro bordate, i loro colpi bassi. Viene sempre meno l’idea che si voti davvero solo per la riforma costituzionale. La prova, sempre che servisse, è che ad esserne influenzata è principalmente la politica del Governo e del premier, che per far vedere quanto è bravo e determinato, lavora gli elettori ai fianchi cercando di convincerli con il solito metodo di instillare la paura del day after. Così come per la brexit ora il nuovo giorno fatale è il 5 dicembre 2016, spartiacque fra il bene e il male. Così vestite le migliori insegne del cavaliere senza macchia inizia la sua narrazione di solitario difensore della italica integrità nazionale dagli assalti europei prima ostenta insegne e armi e poi gli scudi. Annuncia di essere passato dalle parole ai fatti e, lancia in resta, di aver messo messo il veto sul bilancio Ue. “Abbiamo posto il veto col sottosegretario Gozzi a Bruxelles – ha annunciato il premier nel primo dei due giorni del suo tour elettorale referendario in Sicilia- perchè pensiamo che non siamo quelli che lasciano semplicemente una parte del continente, del popolo siciliano, a farsi carico dell’immigrazione, di salvare migliaia di vite, e farsi carico della complessità della vicenda. E poi riempiamo di soldi i Paesi europei che non accettano non soltanto un accordo che loro hanno firmato, ma con i nostri soldi tirano su i muri”. “Noi – ha detto ancora Renzi parlando all’Università di Catania, riempiamo di soldi i Paesi europei che creano muri” e allora “oggi abbiamo posto il veto in Europa”. Renzi ha poi voluto sottolineare anche i miglioramenti dei numeri della crescita italiana e cosa di meglio che snocciolare i dati di oggi dell’Istat sul Pil. “Nell’ambito di questa nuova stabilità – ha detto- l’Italia ha smesso di essere un problema per l’Europa”. E se è vero che “i dati del Pil non sono ancora soddisfacenti per la prima volta questo trimestre abbiamo fatto meglio di Francia e Germania”. “L’Italia – ha sottolineato ancora Renzi- è diventata l’alternativa a questa Europa. Siamo per l’Europa, ma per l’Europa che mette al centro esattamente i valori, gli ideali, la passione, l’innovazione e la ricerca”. “Un’Europa – ha esortato- un pochino più biotech e nano tecnologie, e un pochino meno di regole burocratiche . Che quando si trova di fronte alla questione dell’immigrazione abbia uno sguardo carico della complessità del tempo che stiamo vivendo. E non sia superficiale ed egoista”. Fosse davvero tutto come descritto dal premier sarebbe da seguirlo fino all’inferno nella sua crociata. In armi fino all’ultimo respiro nella battaglia epocale per il cambiamento di un Europa matrigna con i popoli . Il problema è che solo oggi Renzi sembra accorgersi che questa Ue tecnocrate e bara non piacere più a nessuno. Il problema è però di credibilità di questo premier, troppe e troppo grosse le ha sparate in questi 1000 giorni di governo che avrebbero dovuto cambiar l’Italia e che invece alla fine, forse, sempre che passi il Si al referendum, cambieranno in peggio un pezzo della Costituzione. Ma torniamo per un attimo ai dati ISTAT, strombazzati dal premier come una sorta di grande vittoria perchè si annuncia che il PIL dei mesi estivi è salito e che il risultato finale sarà probabilmente un più 0,8 in ragione d’anno. È esattamente quanto previsto dal governo, dice trionfalmente, dimenticando però di aver dimezzato la sua iniziale previsione di crescita dell’1,6. Inoltre guardando meglio i dati ISTAT nella loro completezza si scopre che c’è di nuovo la deflazione dei prezzi e che dunque la ripresina estiva in realtà è fugace, destinata a spegnersi. Ma in delirio elettorale basta la conferma dei suoi dati al ribasso per far gridare a Renzi che il nuovo miracolo italiano è alle porte, sempre che, fa capire il premier, non vinca il NO al referendum, altrimenti, annuncia non avremo ripresa e ripartirà lo spread, perchè non sarà più garantita al paese la “governabilità”. La solita favoletta della stabilità legata solo all’esistenza di un governo, dimenticando che i meccanismi che generano il differenziale fra i titoli si Stato ha molte variabili, tanto che, ad esempio, la Spagna che è rimasta senza governo per un anno ha uno spreed più basso di quello italiano. Insomma Renzi non fa cenno alle sette piaghe d’Egitto o al diluvio universale per un briciolo di decenza che forse ancora gli è rimasta. In realtà, che la speculazione sui titoli del debito pubblico italiano ricomparisse in vista del referendum era previsto dagli analisti, quello che non era prevedibile e accettabile che fosse il capo del governo a fare il gufo allibratore contro il suo paese. Ma del resto troppo ghiotto era il boccone per lasciarselo scappare, agitare il fantasma dello spread se non passa il suo amato “Si” è ovviamente un’arma che diventa tale se nella battaglia ti segue la stampa amica. Ecco spiegato il titolo La Repubblica di oggi sullo spread legato per di più alla notizia che la Unione Europea sarebbe sul punto di revocare le politiche di austerità. In realtà non di revoca si tratta ma solo di slittamento, un rinvio al 2017 delle procedure di infrazione, tre mesi di respiro ma soprattutto quanto basta a superare la scadenza del 4 dicembre. Ad essere maliziosi spesso ci si azzecca, se infatti valutiamo il combinato disposto fra il muso duro alla tartaruga ninja all’Europa di Renzi e la disponibilità di quest’ultima a non porre questioni prima del referendum, l’impressione che tutto sia orchestrato è forte, potremmo essere dinnanzi ad un favore personale, a tempo determinato, che i governi e le burocrazie europee stanno facendo a Matteo Renzi. Finita la buriana referendaria lui ha promesso di tornare a farsi pecora. Del resto questa presunta svolta Europea che improvvisamente abbandona l’austerità non sembra essere universale, visto che nei prossimi giorni alla Grecia, dove non si vota alcun referendum costituzionale, verranno comminate nuove pesanti e devastanti misure di austerità.

Fabio Folisi