Tre genocidi in 100 anni Armeni, Ebrei e Cristiani

Gli estremi dell’orrore si toccano. Tre genocidi che, come ha detto il Papa alla Via Crucis al Colosseo, si sono compiuti e si compiono sotto i nostri occhi e nel nostro complice silenzio. Esattamente 100 anni fa il genocidio degli armeni da parte dei turchi, in questi giorni le stragi di cristiani a opera dei ‘Nerone islamici’, in mezzo la Shoah degli ebrei nei campi di sterminio hitleriani. Il 24 aprile 1915 ricorrerà il centenario dell’olocausto del popolo armeno. Oggi 8 milioni di eredi dei sopravvissuti vivono sparsi in più di 85 Paesi dove, pur cercando di integrarsi, tentano di mantenere la loro identità. In sostanza, hanno una doppia appartenenza. Ne ho incontrati molti a Erevan (così chiamano la loro capitale mentre per i sovietici - quando ci sono andato io c’era ancora l’Urss - era Yerevan) alle falde del mitico monte Ararat che la domina possente. Qui si arenò l’arca di Noè e sempre qui ci furono i macelli ordinati dall’impero ottomano. Ankara, anche adesso che c’è una Repubblica sedicente democratica, non ha mai ammesso - a differenza di ben 21 Stati - le sue indubbie e gravi responsabilità. Il gruppo nazionalista dei ‘giovani turchi’ massacrò almeno 30 mila persone e ne deportò nel cuore dell’Anatolia ben un milione e 200 mila. Son noti per la loro acuta intelligenza, per il suffisso “ian” dei loro cognomi e per essere convinti cristiani. Della loro fede son rimasti meravigliosi monasteri a un tiro di schioppo dall’Ararat. Negli incontri con gli armeni che sono tornati nella loro patria, ora indipendente dopo la caduta del comunismo sovietico, ho ritrovato l’orgoglio di appartenere a un popolo che non ha mai voluto morire. Tutti mi hanno detto che “qui ci sentiamo a casa. Non perché sedotti improvvisamente dalla gentilezza della gente, ma per la terra e la luce che ci avvolge in questa nostra culla-patria montagnosa, piena di ruscelli e foreste dentro cui si annidano i monasteri”. “I Paesi che ci hanno accolto hanno plasmato la nostra mente e le nostre abitudini. Ora possiamo ritrovarci per condividere ricordi, ma la vita e la tragedia antica della nostra gente ci ha segnato”. “Ma il nostro, come l’ebraico, è un popolo in diàspora. Lo sentiamo e questo ci fa soffrire. Sappiamo che nostri compatrioti sono là fuori, in un altrove spesso irraggiungibile, altri ‘resti della spada’, quelli che non sono stati eliminati dal Grande Male che ha travolto tutte le nostre famiglie anatoliche, quelli con cui vorremmo condividere i ricordi dell’antica terra perduta, le lievi illuminazioni di un gesto e di un sorriso”. “E poi conoscere i loro figli e nipoti, le donne e gli uomini che hanno condiviso i nostri tormenti, chiacchierare in pace davanti a un caffè e a un dolcetto orientale”.

Augusto Dell’Angelo
Augusto.dell@alice.it