Tal Abyad, una goccia nel mare jihadista

In una situazione disperata come quella di Iraq e Siria, dove i jihadisti continuano ad umiliare gli eserciti regolari di Baghdad e Damasco, le milizie sciite sostenute dall’Iran che dovrebbero sostenerne gli sforzi e la coalizione internazionale mobilitata in fretta e furia da Obama per non perdere la faccia, persino un brandello di buona notizia merita di essere valorizzata, anche solo per pungolare il morale di chi avrebbe ottime ragioni per imboscarsi. Di qui l’enfasi data dai media mondiali alla liberazione della città siriana di Tal Abyad, avvenuta il 15 giugno dopo una dura battaglia condotta dai soldati curdi delle Unità di Protezione del Popolo (YPG) e dalle forze alleate dell’Esercito Siriano Libero. I motivi per salutare la buona novella in effetti ci sono tutti. Impossibile non esultare per una sconfitta dei tagliagole, la seconda da parte dei combattenti curdi dopo la loro eroica e vittoriosa resistenza nella cittadina siriana di Kobane, il cui assedio da parte dell’Isis fece palpitare per mesi l’opinione pubblica mondiale. Impossibile non rallegrarsi per la cacciata dei tagliagole da un avamposto dello Stato islamico che per quattordici mesi è servito come punto di transito di armi e volontari che, dopo aver tranquillamente varcato la vicina frontiera con la Turchia, andavano a rafforzare l’onda d’urto del jihad del califfo al-Baghdadi. Impossibile sottovalutare l’importanza della caduta di un luogo che dista poco più di cinquanta miglia dalla capitale del Califfato, al-Raqqa, in uno sviluppo che lascia presagire ulteriori guai per i jihadisti. Il valore simbolico di tutto ciò è innegabile. Ma i simboli, per potenti che siano, non vanno mai letti a prescindere dai fatti da cui scaturiscono. E i fatti ci dicono che, al di là della salutare vittoria curda, il bilancio della guerra contro il Califfato è ancora negativo. Le informazioni che giungono in queste ore dal territorio dove infuria la guerra santa dei seguaci di al-Baghdadi non giustificano alcun tipo di ottimismo e sono anzi motivo di preoccupazione. Ha trovato conferma anzitutto la previsione, fatta diverso tempo fa, di una estesa offensiva jihadista in Iraq in concomitanza con il periodo del ramadan. Negli ultimi giorni l’esercito e le forze di polizia di Baghdad hanno intercettato e ucciso 53 kamikaze pronti ad entrare in azione e neutralizzato trentasei autobombe (VBIED), che rappresentano gli strumenti prediletti dai miliziani neri per seminare morte e panico tra le fila degli avversari. Come da copione, l’ISIS si sta dunque predisponendo ad assaltare le postazioni governative ancora funzionanti a presidio delle aree su cui il califfato ambisce ad estendere il proprio controllo. Ben consci del rischio di un definitivo precipitare della situazione, gli americani valutano ormai apertamente di inviare in Iraq altri uomini. Non si tratterebbe però degli ormai famosi “stivali sul terreno”, che Obama ha sempre rifiutato di voler mettere in campo, ma di ufficiali chiamati ad addestrare l’esercito di Baghdad: un’impresa disperata, come ben sanno quei generali statunitensi che non hanno remore a dichiarare che ci vorranno anni prima che le forze irachene siano all’altezza della situazione. Nel frattempo, gli analisti indipendenti che monitorano la situazione sul terreno mettono spietatamente a nudo come la minaccia jihadista sia ben lontana dall’essere estirpata, poiché la fonte della sua potenza militare non è stata praticamente intaccata. Un rapporto del Long War Journal, che segue attentamente le vicende dal fronte, ha appena rivelato che i campi di addestramento dei jihadisti in Iraq e Siria continuano a funzionare e anzi si moltiplicano. Se una quindicina dei 117 campi di cui si è venuti a conoscenza dal 2012 sono stati bombardati dall’aviazione americana, dal febbraio di quest’anno ne sono sorti altri 37. La maggior parte si trova in quel territorio siriano che, come si sa, è ormai inglobato in quell’entità statuale, il Califfato, il cui primo atto politico fu proprio la cancellazione del confine tra i due paesi. Non tutti questi campi, va detto, sono gestiti dal Califfato. Alcuni sono di pertinenza dei qaedisti di al-Nusra, altri sono amministrati da gruppi jihadisti stranieri approdati qui per prendere parte al jihad contro il regime siriano. Distribuiti in uno spazio quanto mai ampio che comprende persino le porte di Damasco, questi campi ospitano uomini reclutati in loco ma anche volontari arrivati da tutto il mondo. Vi si apprende l’arte della guerra, si familiarizza con l’uso delle armi automatiche e si impara anche a compiere assalti all’arma bianca. A dimostrazione della volontà jihadista di proiettarsi nel futuro, non mancano campi su misura di donne e persino di bambini. Per questi ultimi sono previste lezioni di Corano, finalizzate ad indottrinarli alla versione iper-radicale dell’islam califfale, mentre i minori emigrati da paesi non arabofoni hanno l’opportunità di apprendere la lingua di Maometto. L’addestramento militare è ovviamente incluso in un pacchetto studiato su misura dell’esigenza di formare i futuri mujaheddin che saranno chiamati a realizzare l’espansione del Califfato sul resto della mezzaluna islamica. Di fronte a questi segnali, l’esultanza per Tal Abyad dovrebbe dunque essere quanto meno ridimensionata. Tanto più che il successo curdo ha già suscitato reazioni che non promettono nulla di buono per il futuro dell’area. Il governo turco, per bocca del suo presidente-sultano Erdogan, ha immediatamente denunciato le mire territoriali di quelli che ritiene meri “terroristi”. Come al tempo dell’assedio di Kobane, a fare le spese dell’ostilità di Ankara sono stati i civili scappati da Tal Abyad e dai villaggi vicini, che per giorni si sono visti impedire l’accesso in Turchia perché, come ha affermato il vice primo ministro turco Numan Kurtulmus, “non c’è alcuna crisi umanitaria a Tal Abyad”. Lo stesso successo curdo è stato incrinato dalle dichiarazioni delle formazioni islamiste che hanno affiancato l’YPG nella battaglia di Tal Abyad. La loro denuncia di una “pulizia etnica” attuata dai combattenti curdi a danno degli abitanti arabi e turchi della città liberata è solo l’ennesima dimostrazione che le piaghe di questa regione sono ben lontane dall’essere sanate.