Siamo ancora qui, in conflitto tra Meriggio e Mezzanotte

bigAllora: noi cittadini comuni che quotidianamente leggiamo i giornali nella speranza di avere belle notizie su molti fronti: lavoro, economia, ambiente, farmaci non accessibili, gestione profughi, siamo puntualmente delusi non soltanto dalla mancanza di buone nuove, ma dalla mancanza completa di idee. Insomma: noi che poniamo fiducia su chi usa la testa per mestiere, certi che soluzioni concrete e intelligenti saranno trovate, è con viva preoccupazione che constatiamo che nessuno, a questo mondo, sa più che fare e cosa pensare.
Un esempio. Oggi abbiamo letto l'ennesima intervista all'intellettuale di turno sul problema immigrazione e accoglienza profughi. A parlare era Marc Augé. Benone, abbiamo pensato, l'antropologo ci mancava e forse, in tema di grandi esodi ed emigrazioni, la sua esperienza di studi e le sue idee potrebbero essere rivelatrici. Abbiamo letto con interesse, ma alla domanda: cosa bisogna fare? Lo studioso ha risposto: “Ci vorrebbe una politica europea forte e coraggiosa. L'immobilità dell'Europa è evidente. (…) bisogna rinunciare alle reazioni emotive e valutare i problemi razionalmente e ipotizzare alcune soluzioni immediate d'ordine umanitario per garantire l'accoglienza(...). A un problema di ordine planetario occorre rispondere con una politica globale. E i più ricchi d'Europa, dovrebbero farsene promotori”.
Ora, con tutto il rispetto nei confronti dello stimatissimo scienziato, è evidente che questa vaga risposta la poteva dare chiunque. Ci perdoni, ma noi comuni mortali non siamo capaci di speculazioni filosofiche, per noi la vera filosofia deve avere soluzioni pratiche, deve insegnare a vivere, deve dire a chi ha meno strumenti per capire, “come fare”.
Comunque questo non significa che Augé sia a corto di lumi, e ha pure ragione quando dice che il problema andrebbe risolto alla fonte, attraverso un dialogo con i Paesi da cui partono i richiedenti asilo; ma il disastro è davvero senza precedenti e la sfida per la sua soluzione è così alta che non basterebbe il filotto di dieci premi Nobel. A meno che, per magia, scomparissero dalla faccia della terra la corruzione, la malavita e gli interessi economici.
Comunque due parole dette dallo studioso ci hanno fatto riflettere: “Europa e Mediterraneo”, e ci è venuto in mente che l'immobilità del Vecchio continente non è così recente, come lascia intendere Augé, ma ha radici ben più lontane. Anzi, la fragilità è ciò che lo ha sempre caratterizzato e la sua unione è sempre stata barcollante, come un castello di carta. La sua fragilità è dovuta a un tiro della fune interno, a una volontà di supremazia da parte degli stati nazione, a una genetica incapacità di ragionare in senso ugualitario. E il Mediterraneo in passato non fu un problema “esterno”, ma un elemento interno all'Europa che, come altri, era motivo di divisione. Soprattutto culturale.
Ci è allora venuto alla mente “L'uomo in rivolta” dove Camus scrisse: “(...) la storia della Prima Internazionale, in cui il socialismo tedesco lotta senza posa contro il pensiero libertario dei Francesi, degli Spagnoli, degli Italiani, è la storia delle lotte tra ideologia tedesca e spirito mediterraneo. Comune contro Stato, federalismo solidale contro centralismo burocratico, società concreta contro società assolutista, sono allora le antinomie che traducono il lungo affrontarsi di misura e dismisura che anima la storia dell’Occidente. Forse il conflitto profondo di questi secoli è tra i sogni tedeschi e la tradizione mediterranea. L’Europa non è mai stata altrimenti che questo conflitto tra Meriggio e Mezzanotte”.
Insomma, l'ago della bussola può pure spostarsi, può anche andare fuori sede, così come possono cambiare i problemi, ma i conflitti in questo “assemblamento” di stati sono gli stessi perfino dai tempi in cui, Napoleone Bonaparte, sognava di unire il continente. E fino a quando sotto alle 28 stelle d'oro non ci riconosceremo compatti e uniti pur nelle diversità, difficilmente potremo trovare facili soluzioni alle difficoltà che via via la storia ci presenterà. E la sfortuna è che, in fase già fortemente compromessa dalla crisi, ora ci tocchi la questione profughi, l'emergenza più grave che sia mai capitata. In troppi sottovalutano l'invasione epocale e il numero di uomini in movimento. E in pochi ne comprendono chiaramente le conseguenze sul futuro.
L'Europa, così fragile, rischia davvero di rimanere schiacciata.
Ma c'è un'altra cosa detta da Augé, che ci ha fatto riflettere: quando gli viene chiesto come mai agli europei facciano paura i migranti, lui risponde che loro sono l'incarnazione del nostro spauracchio peggiore: lo sradicamento.
Ripensando alle nuove generazioni, però, ormai proiettate in un mondo globalizzato e in continuo movimento, soprattutto per motivi di sopravvivenza e lavoro, guardando in prospettiva si sgretola ogni concetto di radicamento e appartenenza. Ma si sgretola anche il tabù contro gli immigrati.
Oggi, affamati come siamo, abbiamo paura di dover aggiungere un posto a tavola. E la tavola è pure stretta. E abbiamo paura di doverci impegnare per rivoluzionare un mondo che, pur con i suoi difetti, ci stava comodo come una ciabatta. Ma la vera paura che dobbiamo combattere, è proprio quella del cambiamento.
Chissà, forse dovremmo allegramente accettare la mescolanza “forzata” di tutti i cromosomi e di tutte le culture; di tutti i saperi e di tutte le eredità. Idea fantascientifica per noi, complicatissima, quasi ideale, ma non così astrusa per le nuove generazioni.
Forse, quello che dobbiamo fare per trovare possibili soluzioni, è trovare la voglia e la forza per cambiare ancora. Smettere di accanirci su questioni di frontiera, quando sappiamo bene che le frontiere sono arbitrarie. Dobbiamo rinunciare all'anacronistico scontro tra “imperi”, quando ci sta soffocando un problema di civiltà. Peraltro prevedibilissimo da 50 anni.
L'Europa, l'Occidente, si deve mettere in seria discussione. Non ci resta altro da fare, perché, come ha detto il numero uno degli “intellettuali”, le cui parole sono riportate nel Vangelo: chi si ferma è perduto.
Su una cosa, dunque, siamo pienamente d'accordo con Augé: che compassione e solidarietà non sono segnali di debolezza o ingenuità, soprattutto per i Paesi che costantemente si appellano ai diritti dell'uomo.