Siamo ancora in fuga “dall’uomo della sabbia”

Nel 1815, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann scrisse "L'uomo della sabbia". Dopo duecento anni, il geniale racconto è un viaggio nell'anima che ha ancora tanto da insegnare.

“Se esiste un potere oscuro e ostile che immette a tradimento un filo nel nostro cuore col quale poi ci afferra e ci trascina su una via pericolosa e mortale che altrimenti non avremmo battuto… se un potere siffatto esiste, deve prendere dentro di noi la nostra stessa forma, deve anzi diventare il nostro io: soltanto così infatti possiamo crederci e concedergli quello spazio di cui ha bisogno per compiere quell’opera segreta”. Sono queste le parole che lo scrittore Ernst Theodor Amadeus Hoffmann mette in bocca duecento anni fa al personaggio di Clara nel suo racconto “L’uomo della sabbia”.
Sarebbe un vero peccato dimenticare il racconto che, inserito nella raccolta “Notturni”, affronta il tema dell'ambiguità indagando l'immaginario dell' automa con una straordinaria attualità. L'opera, infatti, che in seguito vide la sua consacrazione psicoanalitica grazie a Freud nel suo famoso saggio “Il perturbante” (1919), individua l’elemento portante nel “rimosso” che ritorna.
La trama, in perfetto stile hoffmannianosand-face1-570x300, è decisamente complessa ma straordinariamente comune. Il protagonista, Nathaniel, è angosciato fin dalla sua infanzia dai racconti spaventevoli della madre, individuando nell'amico di famiglia, avvocato Coppelius, l'umo nero, l'uomo cattivo, l'uomo della sabbia, appunto, su cui proietta le parti malvagie del padre. Il doppio dell'avvocato, da lui individuato in seguito un venditore di occhiali, il sig. Coppola, lo perseguiterà fino all'Università quando, il giovane Nathaniel, si innamorerà della taciturna Olimpia che si rivelerà essere nient’altro che un automa. Ripresosi da un primo episodio di follia, ovvero di schizofrenia, il protagonista vi ricadrà alla fine del racconto quando, dopo il tentato omicidio di Olimpia, si suicida gettandosi da una torre, davanti agli occhi di "Coppelius": l'uomo della sabbia.
Ormai indissolubilmente legata all’interpretazione freudiana del perturbante, l'opera ha ancora molto da svelarci sui processi di coscienza e rimozione, sui meccanismi della proiezione che operano in noi nelle relazioni con gli altri, quando ci innamoriamo, quando intratteniamo rapporti con le persone più care, quando siamo in preda dell'aggressività. Le scissioni tra buono e cattivo che Nathaniel esercita sulle persone, sono le nostre scissioni, le idealizzazioni e le svalutazioni che ogni giorno facciamo nel considerare la realtà esterna, e che ci portano irrimediabilmente a fare i conti con l’ambivalenza dei nostri sentimenti. Sentimenti che Manzoni, superbo conoscitore del “male assoluto” che alberga in noi, definiva un “guazzabuglio”.
In Nathaniel riocnosciamo tutti i comportamenti dello schizofrenico, del paranoico, dello psicotico; insomma, comportamenti che un tempo si riconoscevano nell'animo sensibile e romantico dell'artista e dell'uomo deluso e frustrato nelle proprie ambizioni causa la cultura miope dilagante, e che oggi riconosciuamo nella maggior parte delle persone che incontriamo. Completamente orfane di prospettiva e, dunque, incapaci di recuperare senso a un'esistenza che, irrrimediabilmente, diviene fine a sé stessa in un pericoloso aggrovigliamento dell'anima. Ne suggeriamo, dunque, la lettura, e ne auspichiamo l'identificazione e la comprensione. E' questo, del resto, il prodigio della buona lettura: fornire quella conoscenza o quel punto di vista che, forse, ci insegna ad accettare quella parte spaventevole di noi. Ad amrla e, dunque, esorcizzarla. L'uomo di sabbia che da sempre ci perseguita, potrebbe così sciogliersi come un castello.