Se ad essere folle è il preconcetto

cropped-12465567-hi-res-sfondo-nero-lavagna-con-pezzi-di-colore-due-gesso-1Udine. “Per una corretta informazione sulla salute mentale. Giornalisti, operatori e utenti a confronto nella Giornata mondiale della Salute mentale”, questo il titolo dell’evento previsto il 9 ottobre in Sala Ajace a Udine nell'ambito della manifestazione, "Disturbo? I colori della salute mentale". Organizzato dalla Cooperativa sociale Itaca in collaborazione con il Dsm di Udine, il Comune di Udine e l’Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia, l'incontro vuole essere anche un momento di formazione rivolta ai giornalisti, a chi quotidianamente scrive sui media (anche sui social media) e ha a che fare o potrebbe avere a che fare con le parole della salute mentale. La giornata – che rientra all’interno dei corsi di formazione obbligatoria rivolti ai giornalisti e approvati dall’Ordine nazionale dei giornalisti – vedrà i relatori approfondire i seguenti temi: al mattino 9.30 – 12, Mauro Asquini, Direttore del Dipartimento di Salute mentale di Udine, “Dello stigma e del pregiudizio: il Dsm cosa dice?”; Raffaella Maria Cosentino, giornalista (freelance, tra le collaborazioni Redattore Sociale, Repubblica, L’Espresso, Bbc News), “Mass-media, pregiudizio e paura dell’altro: come praticare giornalismo responsabile”; Gianpaolo Carbonetto, giornalista (per il Messaggero Veneto è stato inviato speciale, caporedattore, responsabile del sito internet), “Alimentare lo stigma per un clic in più? Per una nuova etica dell’informazione rispetto ai temi della salute mentale, anche sui social media”; Maria Angela Bertoni, psichiatra (dirigente responsabile del Csm Udine Sud), “Le parole dell’ascolto e della cura: in bilico tra segreto professionale e prassi quotidiana”; Gruppo attualità e confronto della Comunità Nove, fruitori di servizi della salute mentale, “Chiamati in causa. Il pensiero di un gruppo di lettori che frequentano i Servizi di Salute Mentale”. Moderatore della sessione mattutina Fabio Della Pietra, giornalista, ufficio stampa della Cooperativa Itaca. Al pomeriggio 13 - 14.30 tavola rotonda con Mauro Asquini, Gianpaolo Carbonetto, Raffaella Maria Cosentino, Maria Angela Bertoni, moderatore Gian Luigi Bettoli, storico, presidente di Legacoopsociali Friuli Venezia Giulia.
Ne abbiamo parlato con Nicola Bisan, formatore della Cooperativa Itaca e ideatore dell’evento assieme ad un gruppo di lavoro formato dall’Area Salute Mentale e dalla Comunità Nove di Itaca.

Da dove nasce l’idea di un incontro pubblico sulle parole della salute mentale?
“L’idea di organizzare un incontro pubblico aperto anche ai giornalisti, ma non solo, sulle parole della salute mentale, nasce da un senso di impotenza e di frustrazione. Quando mi capita di leggere alcuni articoli che riguardano eventi legati a persone con sofferenza mentale, ci sono alcune costanti che a fine lettura non mi fanno stare bene: il morboso voler scavare a fondo nella vita delle persone, la continua ricerca del nome e del cognome in barba a qualunque privacy, l’accostamento alla pericolosità sociale, al di là della cronaca, l’utilizzo di una terminologia poco consona, di luoghi comuni che alimentano stigma e pregiudizio”.

A volte, quando si scrive di salute mentale, la tendenza sembra essere quella di sbattere il matto in prima pagina.
“Nel momento in cui si verifica un evento negativo, un fatto di sangue, specie se attuato con crudeltà, sui media scatta quasi automaticamente un meccanismo che conduce la responsabilità, reale o presunta, alla sfera dei cosiddetti “malati mentali”. Perché il mostro non può essere tra noi, e se lo allora è colpa di chi non ha vigilato. Questo è un elemento protettivo per la società. Straniero e magari con disturbo mentale, è il massimo”.

Una sorta di categorizzazione, ovviamente non generalizzabile.
“A volte accade anche nei dialoghi tra persone comuni, non solo sui media. Mi ha colpito anche un altro fenomeno: se invece il responsabile (o presunto tale) dell’evento negativo, o fatto di sangue, anche efferato, di cui sopra, appartiene ad un’altra “categoria”, allora la situazione è diversa. Non può essere colpevole e se lo è scattano non solo tutte le attenuanti, ma anche termini e toni più concilianti. E non solo sui media, ma anche al bar o sulla piazza virtuale di Facebook.
Prendiamo il caso che il crimine sia stato compiuto da un componente delle forze dell’ordine, un soggetto che indossa la divisa è rassicurante per definizione, sta dalla parte giusta, non può essere matto. Lui no. Al limite c’è stata una reazione improvvisa, ovviamente imprevedibile. Ma questa reazione (il “raptus” nel gergo comune) non è mai improvvisa, porta sempre con sé dei segnali che la annunciano. Identificato è stato identificato, si tratta pur sempre di una persona, ma è uno di noi e non di loro, e non verrà mai espulso dal gruppo”.

Le statistiche ci informano che gli omicidi solo in minima parte sono commessi da persone con sofferenza mentale. Tuttavia, i più ritengono erroneamente il contrario, adottando più o meno inconsapevolmente un pregiudizio all’origine.
“Rispondo citando quanto riportato in un articolo del 2014 di Angelo Di Gennaro, “La vita è politica”. Solo una percentuale inferiore al 4% degli omicidi è imputabile a persone riconosciute incapaci di intendere e volere, per il resto si tratta di soggetti dotati di grande aggressività e violenza. È opinione comune e diffusa che le persone con malattie mentali siano pericolose e imprevedibili, opinione spesso innescata da come i media trattano alcune notizie di cronaca, nonostante le statistiche non rilevino correlazioni tra malattie mentali e violenza. Purtroppo queste false credenze aumentano lo stigma nei confronti dei problemi psichici allontanando le persone dalle cure e dall’unica verità che dalle malattie mentali nella maggioranza dei casi si può guarire e tutte sono curabili…” (Corsera del 29 giugno 2014).
“Voglio citare anche lo studio americano del 2009, “The Intricate Link Between Violence and Mental Disorder”, di Eric B. Elbogen, Sally C. Johnson, che ha cercato di verificare la connessione tra disturbo mentale e atti violenti. Ebbene, i risultati dicono chiaramente che avere una malattia mentale non predice in maniera significativa il commettere atti di violenza: piuttosto i fattori che incidono significativamente sono quelli della storia personale, delle predisposizioni e di contesto”.

E’ possibile praticare giornalismo responsabile, senza alimentare il pregiudizio e la paura nei confronti delle persone con sofferenza mentale?
“Il nostro augurio è di aprire un dialogo con i professionisti della comunicazione. Riteniamo che sia possibile costruire una nuova etica dell’informazione passando alle parole dell’ascolto e della cura, ad un ascolto pensante come apertura al cambiamento. Serve un mutamento di rotta in primis da parte dei giornalisti, li intendo come persone, esseri umani, proprio come lo sono le persone che frequentano i servizi di salute mentale.
Ciò comporta un più adeguato approfondimento dei fatti, una verifica più puntuale di tutte le fonti, l’approccio ad una nuova terminologia. Fermo restando che il diritto di cronaca è sacrosanto, c’è modo e modo di salvaguardarlo. Le parole, prima di essere scritte, andrebbero conosciute, pensate, approfondite e comprese. Quella era la parola giusta da utilizzare in quel momento preciso? Dobbiamo interrogarci sempre, tutti quanti e a tutti i livelli, giornalisti e non”.

Dignità e diritti per tutti. Un po’ come stabilito dalla Carta di Trieste, peraltro mai recepita, ma restata solo sulla carta...
“Chi scrive, nello specifico, di un fatto di cronaca inerente i temi della salute mentale dovrebbe porre maggiore attenzione alle parole, dovrebbe usare toni e termini rispettosi dei diritti e della dignità delle persone con sofferenza mentale. Sarebbe sufficiente che rispettasse la Carta di Trieste. Altrimenti, come a volte accade, il rischio è quello di favorire la perdita del senso di comunità, alimentando le paure in ognuno di noi, anche quelle più recondite. E non sarebbe poco ortodosso se chi scrive di persone appartenenti a fasce deboli, fragili, si mettesse per una volta nei panni di chi quelle situazioni di difficoltà le vive quotidianamente, di chi soffre situazioni di disagio. Qualcuno si è mai chiesto a cosa potrebbe pensare, una persona, sentendosi definire detenuto o paziente psichiatrico?”.

Va detto che anche l’universo della cura e dell’assistenza non è esente da errori e cattive interpretazioni.
“Noi operatori della salute mentale siamo a volte complici nelle mancanze, nelle superficialità e nelle aberrazioni. Anche noi, al nostro interno, utilizziamo parole scorrette. Si pensi al termine pazienti, siamo sicuri che sia la parola giusta? Il “paziente” gradirebbe sentirsi etichettare in questo modo? Glielo abbiamo mai chiesto? Lo abbiamo mai ascoltato? Anche chi lavora in questo ambito farebbe bene a fermarsi e a interrogarsi sul significato delle parole. Ci possono essere altri termini? Se facciamo tanta fatica ad individuarne di diversi o alternativi, ciò significa qualcosa?
Una nota riguardo a noi operatori della Cooperazione sociale: dovremmo smettere di riciclare le parole degli altri, non possiamo e non dobbiamo prendere in prestito vocaboli dall’ambito medico e ri utilizzarli in maniera acritica. Dovremmo, invece, adottare i termini che ci sono propri. Se non ne abbiamo di nostri, forse dovremmo fermarci un attimo a riflettere se quelli che usiamo vanno bene, sono adeguati; insomma, dovremmo interrogarci un po’ di più al riguardo.

Fabio Della Pietra