Pordenone città della Poesia

Amedeo Giacomini. Foto di Italo Zannier

Amedeo Giacomini. Foto di Italo Zannier

Il 21 marzo, Giornata Mondiale della Poesia, lo Spazio Due del Teatro Verdi di Pordenone ospita un doppio omaggio al poeta Amedeo Giacomini. “Presumût unviâr - Avvertimento dell’inverno”.

«Le mie parole vengono dalla vita, dalle osterie, dalle strade. A me la tradizione serve poco. Solo Pasolini è un modello, ma negativo. Un idolo polemico. Senza di lui io non esisterei come poeta.» Le parole di Amedeo Giacomini, il cantore di Varmo scomparso nel 2006, restano forse la migliore guida all’interpretazione della sua poesia, e all’urgenza "dialettica" dei suoi versi in lingua friulana.

Ma in occasione della serata a lui dedicata, e alla giornata della poesia, ecco una confessione del poeta che ritreniamo illuminante riportare, a proposito della lingua, della sua vocazione e di Pier Paolo Pasolini.

«Sono poeta dialettale, - disse Giacomini - poeta cioè che preferisce esprimersi in un codice diverso da quello della comunicazione nazionale, ma il fatto in sé (che io scriva in friulano e non in italiano) mi lascia piuttosto perplesso. Si parla di un Giacomini poeta in lingua materna, ma qual è veramente la mia lingua materna? Io sono uno a denominazione di origine non controllata. È materno il veneto di terraferma dei miei nonni? Quello di confine dei miei genitori? L’italiano, che mi è stato imposto con cannonate autentiche dalla scuola? Oppure, il friulano del mio paese – per emigrazione - natale, che tra la gente (contadini, operai e i miei
compagni...) è stato, fin dalla primissima infanzia, il mio modo comune di esprimermi, indipendentemente dalla volontà dei miei genitori - pretendevano infatti che parlassi l’italiano o almeno il venetoide della piccola borghesia locale, il venetoide quindi degli ‘studiati’? Tirando le somme, passati i sessanta, dovrei riconoscere che sia proprio quest’ultimo la mia lingua madre, ma la confusione rimane e anche mi pesa. Perciò, riferendomi al fare poesia, preferirei non distinguerla in dialettale o in lingua, ma (se c’è), preferirei parlare di poesia tout court, di un modo cioè di considerare il mondo (o semplicemente un paesaggio interiore), esserne dentro nel presente fino in fondo e darne (alle quattro persone che magari ti leggono) qualche strumento per capirlo o magari anche per modificarlo. Una lingua, ne sono convinto, ti trova, non sei tu a cercarla. Per attenermi all’aspetto più problematico del tema di oggi, dirò che fu Pasolini, con la scorta del suo pascolismo di fondo, a eleggere la lingua materna “lingua della o per la poesia”. A giustificarlo contribuirono alcuni suoi traumi psicologici non superati e la situazione storica (il fascismo, la guerra) in cui operava: il friulano (il casarsese che nemmeno parlava) venne, per lui giovanissimo, a opporsi all’italiano (in cui pure erano sta te scritte le sue Poesie a Casarsa, poi tradotte servendosi principalmente del contributo di amici e del vocabolario), in quanto questo era diventato insopportabile nella volgarità fascista: non lingua di popolo ma espressione della retorica stupidità piccolo borghese. Il casarsese fu, dunque, dal punto di vista letterario, per sua stessa definizione, ricerca di una lingua vergine, superiore anche a quella degli ermetici che voleva aggirare, espressione di un popolo antico e nuovo, forte della sua fedeltà a valori concreti: ideologicamente, un fatto di Resistenza. Per quel critico acuto che già egli era, il casarsese (un dialetto molto venetizzato del friulano centrale, ricco di dittonghi dolcissimi, di finali tronche alquanto musicali, che ben sposavano la ricerca fono-simbolica delle intenzioni poetiche), a voler essere cattivi, fu persino una decisione oculata, quella che andava bene in quel periodo, in cui l’ermetismo era ormai alle sue strette finali, una decisione atta persino a nascondere (o a mascherare) nella sua fonalità squisita, traumi psichici e umani che erano tipici di un sé Narciso. Gli permise (il casarsese) di creare insomma un teatrino idillico ed edenico in cui l’Io-Narciso e la meglio gioventù che lo circondava rivestivano panni angelici, ben lontani da quelli che, nella sua vita grama, nella sua miseria, quella gioventù veramente era. Un teatrino, dunque, sostenuto – e sta proprio qui, a parer mio, la lucidità letteraria del poeta - dal ricorso, in nome degli intenti di purezza e verginità, ai lirici primitivi (i provenzali, soprattutto), innestato alle traduzioni in friulano dei moderni, a partire da Pascoli, appunto, assunto (senz’altro grazie agli insegnamenti di Contini) quale zoccolo duro della modernità decadente. In altre parole, ancora e fuori dal ricorso al friulano, fu per lui un atteggiamento storicistico che anticipava il suo neosperimentalismo futuro.
Io ho molto amato quel teatrino, in primo luogo perché elevava la poesia in lingua friulana a livello finalmente autonomo e, per cultura, europeo, quella poesia che, quasi parallela, per antichità e durata costante, a quella nazionale, era invece caratterizzata dal provincialismo: vernacolare in senso stretto, poesia da ‘tavolata’, insomma, di imitazione verso il basso, prodotta da nobilotti imparruccati e da borghesi in cerca di stima e protezione per divertire nei convivi padroni, amici e sodali. In secondo luogo, l’ho amato perché da quel teatrino ho a lungo dipeso. Dovrò a questo punto chiarire. La mia poesia che, una volta partito Pasolini dalla piccola patria, nacque in tempi di già rinnovato provincialismo, trovò, almeno all’inizio, motivazioni quasi simili a quelle del Nostro: fu, infatti, ‘cercata’ dal friulano piuttosto tardi, all’epoca del terremoto (una guerra per noi tutti, con effetti drammatici di ogni tipo, com’era stata quella del fascismo) una ventina di anni fa.
Prima scrivevo prosa e versi in italiano. A incidere sull’aspetto secondo della mia abbastanza torbida diglossia (ma già insegnavo lingua e lettera tura friulana agli studenti udinesi) non fu un bisogno di implosione nelle mie passioni a sfondo psicologico, ma un’esplosione in qualche modo politica e di rabbia. Nei primi versi (abbastanza scoperti e naives) davo vita a un personaggio che, per esigenza di verità ma anche di compromissione, chiamavo Io. Con esso mi opponevo all’idea edenica dell’uomo friulano, considerato allora da tutti i potenti, ma soprattutto dai poeti locali, come l’essere migliore che esistesse al mondo, portato a siffatta eccellenza da una natura privilegiata in sé, da valori da sempre radicati e insopprimibili, mal riconosciuti peraltro e senza esito, frustrati in quel momento persino dal Cielo e dalle sue violenze. Era il friulano, cioè il modello dell’uomo forte, religioso, sincero e casto (forte della sua capacità soprattutto di lavoro, divenuto quasi simbolo araldico in tempo di ricostruzione), un uomo (maxime per i poeti) ‘diverso’, che lo stesso Pasolini, ritenuto grande da altri, ma in questa sua patria, profondamente disprezzato (e poi dicono che i poeti non contano per il futuro), nei suoi strambi versi, proponeva come tale. Mia intenzione politica e morale era semplicemente dimostrare la non verità di tutto questo. Il friulano (anche il mio Io lirico) era uno come tutti: un uomo (un giovane, perché io allora ero relativamente giovane) con i suoi vizi, con i suoi problemi di comportamento, con i suoi rimorsi e i suoi strazi, con i suoi rapporti anche duri con una fede di norma annichilente, non dunque un essere immerso in un mondo di buone mamme, in un paesaggio da sogno trascorso da immortali primaverili rondinelle, accompagnato da femmine buone e dolcissime. Un individuo, insomma, che nelle sue miserie interiori ed esterne, era semplicemente umano. Questa versione persino banale, che non pretendeva cioè di spaccare il mondo (neppure quello degli intellettuali locali e del loro ipocrita senso di superiorità) veniva a oppormi da poeta al da tutti finalmente accettato Pasolini, che per altre ragioni mi era in qualche modo maestro.
Nel momento della riflessione, quando capii che, anche per le rimostranze esterne che furono subito piuttosto dure, non avrei potuto scrivere se non in friulano, dovendo per necessità letteraria, fare i conti con lui (muovermi, cioè, e non da semplice epigono al largo da lui), in un primo tempo ne radicalizzai, se si vuole in negativo, i contenuti.
Rispetto alla letteratura che mi stava davanti e che ci precedeva entrambi, facevo tesoro dei suoi insegnamenti: l’apertura a problemi stilisti ci e formali di valenza europea; l’uso di un dialetto che non era più quello di un luogo preciso (posto alla destra o alla sinistra del Tagliamento, il fiume che, anche linguisticamente, ci divide), ma una sorta di koiné popolare, espressione in movimento di chi, per scelta, frequentavo: operai, gente della piazza, delle osterie, etc., una koiné, questa, molto corrotta e contrastata dai puristi locali. Avevo anche come punti di riferimento alcuni modelli formali storici: non erano però solo i provenzali che, per mestiere, ben conoscevo, ma anche i francesi medievali (Rutebeuf, più precisamente i primi trovatori, Gace Brulé e non Villon, come è stato più volte detto e ribadito anche dai più attenti dei miei critici), gli spagnoli del Quattrocento (Manrique in particolare) e, per quanto riguarda gli autori moderni, non guardavo a un sotterraneo filone sperimentalista della nostra lingua nazionale, ma piuttosto a Montale (che Pasolini detestava) al secondo Ungaretti, a Sbarbaro, all’altro mio grande maestro Zanzotto e, per gli stranieri, ai russi dell’avanguardia (l’Acmatova, Mande l’stam, certo Pasternak, la Cetaeva più di tutti...), ad alcuni americani (Olson in particolare) e, tra i nostri dialettali, oltre agli autori canonici Porta e Belli, a Loi, soprattutto, e a Guerra. Davo vita così a un neovolgare (tenendo conto della lingua diversa che usavo) friulano, a parer mio autonomo, marcato, per i contenuti, da un esistenzialismo espressionista ben preciso, quasi unico nella nostra poesia locale di questi giorni.
Staccarmi da Pasolini mi fu in seguito piuttosto facile. Ci riuscii, credo, passati i problemi esterni di stampo che dirò ‘impegnato’, volgendomi a un diarismo quasi completo, incentrato sul tentativo del la verità sul mio essere, sui problemi che mi travagliano e che penso siano quelli di tutti. È quanto faccio tuttora, da poeta, spero, e non da poeta dialettale. Questo è tutto».

Ecco che il 21 marzo, primo giorno di primavera, nell'anno e nei luoghi pasoliniani – al Teatro Verdi di Pordenone, Spazio Due, alle 20.45 - è dedicato l’evento, "Opera Giacomini” andato in scena nel 2007. L’attore Stefano Rizzardi con il compositore e musicista Renato Miani presenta una trasposizione scenica di “Presumût unviâr - Avvertimento dell’inverno”, la storica raccolta di versi di Giacomini uscita nel 1987, metafora stagionale di straordinaria attualità sui tempi, e al tempo stesso sguardo sull’epoca, sui propri antichi sogni e sulla poesia stessa. Attraverso il lavoro che sarà presentato al Verdi, Stefano Rizzardi e Renato Miani, proseguono la ricerca sulla fusione tra poesia detta e musica, iniziata nel 2007 con il  concerto teatrale, “Opera Giacomini”, che abbracciava l'intero corpus della produzione, dalle liriche di Tiare pesante fino ai due straordinari trattatelli venatori. Questa volta, con “Presumût unviâr - Avvertimento dell’inverno” la parola poetica di Giacomini si intesse in una raffinata opera poetico-musicale per voce sola e fisarmonica, nella quale si fondono perfettamente musica, parola scritta e recitata e accompagnamento visivo. I testi selezionati e montati da Stefano Rizzardi in una sequenza nuova, ma rispettosa dell'ordine originale, sono offerti in una versione bilingue italo-friulana a intarsio, che rilancia l'alternanza e l'oscillazione tra i due codici comunque presente in tutta l'opera di Giacomini. Questo procedimento accoglie nell’orizzonte della comprensione immediata anche chi non comprende direttamente il friulano e lo cattura in un gioco di suoni e di intertraduzione. In tale prospettiva diventa importante la novità di questa performance, che è la presenza di un accompagnamento visivo (a cura di Margherita Mattotti), dato dalla video-scrittura, eseguita e proiettata in sincronia alla recitazione e alla musica, di parole e frammenti della materia poetica detta a voce.

Ancora una tappa, quindi, per il progetto Verso, che afferisce a Pordenone città della poesia: uno spazio aperto alle sperimentazioni e agli incroci tra la parola poetica, il teatro, la musica e le nuove tecnologie della comunicazione, portato avanti dal Teatro in collaborazione con pordenonelegge.it e con il sostegno di Banca Friuladria Crédit Agricole.
Un evento che segna l’avvio degli appuntamenti 2015 di Pordenonelegge Poesia, dei quali proprio il Teatro Verdi è partner di riferimento.