Operazione “Balkan Connection”, ecco cosa rivelano le indagini di Brescia

Due anni di indagine per tre arresti, un’ordinanza di custodia cautelare non eseguita perché il destinatario è latitante, otto perquisizioni tra Lombardia, Piemonte e Toscana. È il bilancio dell’operazione "Balkan connection", coordinata dal servizio centrale antiterrorismo della direzione centrale della Polizia di Prevenzione (Ucigos) e condotta dalla Digos di Brescia con le questure di Torino, Como e Massa Carrara. L’inchiesta ha condotto allo smantellamento di un network jihadista che collegava i Balcani occidentali e il Nord Italia. Scopo dell’organizzazione: indurre giovani musulmani italiani ad entrare nelle fila delle milizie dello Stato islamico. Oltre a mettere in luce la fervida attività di contrasto svolta dalle nostre autorità, l’operazione dimostra una realtà nota da tempo: già retroterra logistico del jihadismo transnazionale, l’Italia è diventata luogo da cui attingere forze fresche da mettere al servizio del terrore che impazza in Siria ed Iraq. La ricostruzione delle mosse degli arrestati evidenzia il lavorio jihadista che si muove a cavallo tra geografia fisica europea e realtà virtuale, brodo di coltura dell’estremismo islamico nonché spazio in cui gli aspiranti combattenti vengono agganciati dai reclutatori. I due cittadini albanesi finiti in manette, residenti uno nel paese d’origine e l’altro in provincia di Torino, avevano adescato un giovanissimo tunisino della provincia di Como. Il primo contatto era avvenuto quando il ragazzo era minorenne. Ne era seguita una lunga opera di convincimento effettuata anche con una visita a domicilio. Ora il giovane è il primo italiano ad essere oggetto delle misure cautelative previste dal recente decreto antiterrorismo. Il terzo arrestato non è meno interessante da un punto di vista investigativo. Si tratta di un ventenne cittadino italiano di origine marocchina residente in provincia di Torino. È l’autore di un documento di propaganda in lingua italiana di cui la stampa aveva riferito poche settimane fa. Sessantaquattro pagine intitolate "Stato Islamico, una realtà che vuole comunicare" che avevano cominciato a circolare lo scorso novembre sui social network, dove erano state ampiamente condivise. La valenza di questo testo non può sfuggire. Non è tanto il contenuto che preoccupa, nonostante l’evidente intento di mettere in buona luce quanto avviene nei territori controllati dal califfo al-Baghdadi. Il dato rilevante è il target a cui questo materiale era rivolto: i giovani musulmani italiani, le seconde generazioni che sperimentano sulla propria pelle la spinta contraddittoria di integrazione e radici islamiche. La strategia del califfato gioca proprio su questa tensione identitaria, puntando ad attirare quei soggetti che nell’islam radicale trovano una via d’uscita dall’ambiguità della doppia appartenenza. A fare da trait d’union tra tutti i soggetti indagati in “Balkan connection” è un altro musulmano nostrano. Si tratta di Anas El Abboubi, ventitreenne marocchino residente nel bresciano che nel 2013 ha abbandonato il suo paesino per andare a combattere in Siria. Un foreign fighter, dunque, che oggi si fa chiamare “Abu Rawaha l’italiano”. Il suo percorso è indicativo dei rischi che l’Europa, culla di una minoranza musulmana che conta una ventina di milioni di membri, corre nell’era del califfato. Anas aveva sette anni quando insieme alla madre lasciò Marrakech per ricongiungersi al padre a Vobarno, paesino della Valle Sabbia ad una quarantina di chilometri da Brescia. Con l’avanzare dell’adolescenza, Anas abbraccia la passione che accomuna i giovani di tutto il pianeta: la musica rap. Facendosi conoscere con il nome di Mc Khalifh, finisce addirittura sotto i riflettori di Mtv, che nel marzo 2012 gli dedica un servizio dal titolo “Nel Ritmo di Allah: La storia di Mc Khalifh”. “Amo il tricolore, amo l'Italia”, sottolinea Anas, comprovando la sua integrazione. A un certo punto però il giovane ripudia tutto - musica, spinelli, alcol - per sperimentare quella crisi che lo condurrà ad trovare sicurezza nel Corano. Traendo ispirazione dall’assidua consultazione di siti estremisti, passa all’azione aprendo il franchising locale di una nota organizzazione radicale belga, “Sharia4”. Nel suo sito internet compaiono documenti inneggianti al jihad e inequivocabili dichiarazioni che attestano la volontà del suo gestore di andare incontro al martirio. Le forze dell’ordine vengono a conoscenza di questo “musulmano rinato” nel settembre 2012, quando si presenta in questura per chiedere l’autorizzazione per una manifestazione nella quale, annuncia l’organizzatore, saranno bruciate bandiere americane ed israeliane. Gli agenti prendono nota e, ad insaputa di Anas, cominciano a pedinarlo e a intercettarne i movimenti telematici. Da questo monitoraggio emergono elementi di preoccupazione tali da spingere le autorità a chiederne l’arresto, avvenuto all’alba del 12 giugno 2013. Ma le imputazioni, addestramento con finalità di terrorismo internazionale e incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi, non reggono alla prova della magistratura, che pochi giorni dopo firma il decreto di scarcerazione. È la débâcle della giustizia italiana, costretta a constatare poche settimane più tardi il presunto innocente si era volatilizzato, destinazione Siria. Il successivo 9 ottobre, l’ex rapper ricompare nella sua pagina Facebook, che ha nel frattempo cambiato intestazione. La bacheca si chiama ora “Anas al-Italy” e ospita immagini, video e testi in cui si esaltano le azioni dello Stato Islamico dell'Iraq e della Siria. Il foreign fighter venuto dal Belpaese appare col kalashnikov in spalla e la scritta “Kill the taghot”, uccidi gli infedeli. Dal fronte, il partigiano del califfo non cessa tuttavia di comunicare con gli amici in Italia e in Albania, dove si dipanano i fili di quella matassa che è stata interrotta con gli arresti di questa settimana. Bene ha fatto il Ministro dell’Interno Alfano, commentando i risultati dell’operazione, a sottolineare che “il sistema di prevenzione sta funzionando". L’auspicio è che non si ripeta quanto accaduto in occasione della strage di Charlie Hebdo, con le autorità che avevano individuato anni prima i soggetti potenzialmente pericolosi senza impedire però che seminassero morte e terrore in casa.

Marco Orioles