Noi, analfabeti senza futuro?

Cacciari

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Abbiamo una grammatica per il nuovo tempo? Dialogo a Udine tra Adriano Sofri e Massimo Cacciari

“La libertà di tutti. Culture diverse, un presente comune”, è il tema dei dibattiti in atto oggi e domani a Udine, nella Chiesa di San Francesco. Dibattiti che, ospitando alcuni intellettuali del momento, tra i quali il direttore di Repubblica Ezio Mauro, il filosofo Tzvetan Todorov, Massimo Cacciari e Adriano Sofri, la scrittrice Jhumpa Lahiri, i giornalisti Bernardo Valli, Fabrizio Gatti, Paolo Rumiz, il sociologo Renzo Guolo, il drammaturgo e attore Moni Ovadia introducono «al groviglio di questioni poste nelle scorse settimane dagli attacchi del terrorismo islamista a Parigi e a Copenaghen, a quel corto circuito tra la modernità dell'Occidente e l'anti-modernità dei suoi nemici, tra la coscienza di sé del mondo occidentale e l'immagine rovesciata che ne hanno gli “altri”».
«E, a complicare l'interpretazione e la comprensione del fenomeno – come scrive il quotidiano La Repubblica ideatore dell'evento - questa volta i “nemici” sono cittadini europei e occidentali esattamente come noi, ma che hanno scelto di cancellare i valori della democrazia e della libertà per abbracciare l'ideologia radicale del fanatismo religioso e della morte come punizione per gli “infedeli”».
Siamo tutti disorientati, senza più chiavi di lettura del presente e, dunque, senza mezzi per poter pensare il futuro. La cultura del Novecento ha portato a un divario generazionale profondo, creando una scissione epocale inedita tra le vecchie e le nuove generazioni, tra un linguaggio che rischia d'essere ormai obsoleto e un linguaggio nuovo che risulta incomprensibile ai più.
Per la prima volta, intellettuali, politici, scienziati, guru dell'economia si trovano in seria difficoltà, hanno smarrito la capacità di comprendere, come i marinai genovesi persero la Trebisonda. Urge recuperare il tessuto del presente nella sua interezza e, per farlo, urge recuperare la storia nel tentativo darle una nuova lettura al fine di trovare, come ha detto Cacciari a Udine, una grammatica per il tempo nuovo. Bisogna riuscire a pensare il passato con uno sguardo e un linguaggio nuovo carico di nuovi significati; impiegando lo stesso sforzo che fino ad ora veniva indirizzato per orientarci verso il futuro. E a nostro avviso, per recuperare una nuova grammatica, è necessario sapersi fermare per compiere parecchi passi indietro. E' forse necessario abbandonare l'idea di tempo lineare del tutto occidentale e fuorviante, per imporre dei limiti e ritornare al senso ciclico del tempo. Perché andare avanti ad ogni costo non è detto sia la cosa più sensata. E forse, non è sensato nemmeno ostinarsi a voler dare a tutto una spiegazione, recuperando anche il senso del mistero.
In ogni caso, la sfida lanciata da Massimo Cacciari e Adriano Sofri, è quella di indicare, o invitare a cercare, le nuove parole con cui orientarci nel XXI secolo.
Naturalmente la prima urgenza da risolvere è proprio quella della convivenza tra culture e religioni diverse.
«Nel 2050 – è la visione del filosofo veneziano - la metà della popolazione in Europa sarà costituita da extracomunitari. Lo "straniero" un tempo distante è diventato il vicino con cui condividiamo scuole e luoghi di lavoro. Una prossimità che potrebbe rivelarsi destabilizzante».
Destabilizzante già lo è, ma per comprendere quanto grave potrebbe essere lo smarrimento, Cacciari ha tirato in ballo il sociologo e filosofo polacco, Zygmunt Bauman che, teorizzando la società liquida, sostiene che l'incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. Secondo Bauman, infatti, il consumismo della società post moderna ha creato rifiuti umani mentre, la globalizzazione, che ha cancellato ogni peculiarità, ogni singola cultura, non è altro che un industria della paura. Sì perché senza consapevolezza di quello che siamo, grazie alla conoscenza del “da dove veniamo”, non possiamo che essere un popolo di insicuri e lo smantellamento delle sicurezze crea, appunto, una vita liquida, «ossessionata ad adeguarsi alle attitudini del gruppo» per non sentirsi esclusa. Il problema stesso della crisi, in una società liquida porta paradossalmente alla preoccupazione di non poter comprare perché si rischia di essere esclusi dalla modernità. Secondo Bauman il povero, nella vita liquida, è colui che si sente “tagliato fuori”, frustrato se non riesce a sentirsi come gli altri, cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore di successo. L'ultimo uomo che appartiene a questa vecchia era, dunque, destinata a nostro avviso a un imminente cambiamento darwiniano, lo possiamo definire Homo consumens. E lo stesso concetto di consumo lo possiamo attribuire nel modo in cui oggi si crede di fare cultura. Dove la cultura è diventata esclusiva di pochi, una cricca di presenzialisti che finiscono a parlarsi addosso davanti a un pubblico solo interessato ad esserci per contare qualcosa.
Insomma, siamo diventati uomini e donne senza più arte né parte, sui quali non si investe, ai quali si è negato il senso e che deambulano insicuri, depressi e spaventati.
Siamo i rifiuti definiti da Bauman, e se a ciascun rifiuto è data la sua discarica, mi domando quale meta di compostaggio è in serbo per noi e, soprattutto, cosa potremmo mai fertilizzare in questo mondo dall'ormai sterile prospettiva. E poco aiutano i nuovi linguaggi beceri dei media, costretti a inventarsi neologismi per descrivere l'indescrivibile. Abbiamo smarrito non soltanto la grammatica, ma anche il nostro vocabolario.
E in questo “esilio” dal nostro tempo in cui siamo costretti, è un attimo sentirsi più “stranieri” degli stranieri che ospitiamo.
Bisogna correre ai ripari, chiedendo asilo nel tempo!
Sì perché alla fine della fiera, per essere salvi, ciò che deve rimanere “insostituibile” in noi è proprio la visione in prospettiva, poiché senza di essa, neghiamo senso al tempo disattendendo i doveri nei suoi e nei nostri confronti.
L'errore peggiore che possiamo fare è smarrire questa visione del domani, per sostituirla con un presente ormai immobile, “eterno”, che nega il Divenire, facendo di noi fossili nel cielo aperto.
Profughi dalla nostra vita, la sola cosa da fare è rivendicare il permesso di soggiorno nell'esistere, rendendoci inadatti all'eternità, al tempo infinitamente lineare: la gigantesca discarica, l'illusione elargita che ci neutralizza, e dove gli scarti umani rischiano di cadere sedotti da una truffaldina quanto ridicola promessa di rivincita cosmica.
Urge una nuova grammatica per rileggere l'intera esistenza. Questa è la rivoluzione culturale che abbiamo la necessità di realizzare. E assieme alla nuova grammatica dovremmo trovare una nuova lettura della morale, perché la fine delle "grandi narrazioni" del Novecento, cioè le ideologie, ha reso impossibile la pretesa di verità assolute, e quindi ci possono essere tante morali.
«Se non ripensiamo la nozione del “noi” - ha continuato Cacciari - “Chi siamo noi”? E' lecito continuare a definirci in nome di una superiorità culturale dell'Occidente cristiano e progredito? E in che modo possiamo ridisegnare quel “noi” rendendo più accoglienti i suoi confini?».
«Ora dobbiamo fare i conti con questa dimensione tragica della storia» ha fatto intendere Cacciari, e misurarci con un mondo globalizzato «che non ha portato al massimo della razionalità ma al massimo dell'irrazionalità», e che come scrive Gustavo Zagrebelsky, «non ha prodotto la pace, ma una violenza diffusa».
Le stragi quotidiane nel mondo ci obbligano a una battuta d'arresto di questo insensato procedere cieco verso un progresso non progresso, ci impongono di rialfabetizzarci per cercare di capire cause, effetti, e rimedi. Lo deve fare il mondo politico, religioso, ma non si deve sottrarre nemmeno la scienza.
Fermiamoci per carità di Dio, e iniziamo a pensare. E a recuperare gli insegnamenti della storia, per poi coniare nuove idee mirate a porre rimedio ai disastri compiuti. Prima che sia troppo tardi.
E tardi per cosa? E' una di quelle risposte che, paradossalmente, non sappiamo più dare. Ma una cosa è sicura: al peggio non c'è mai fine se non si impara ad opporre dei limiti.