Migranti problema globale: ma l’invasione in Italia non c’è. I dati aggiornati del Dossier Statistico Immigrazione

Quello migratorio è un fenomeno “planetario, epocale e irreversibile” ma parlare di invasione in Italia è una fake news lo dimostrano chiaramente i dati raccolti dal Dossier Statistico Immigrazione che, giunto alla 28a edizione, è stato presentato nei giorni scorsi a Roma. Secondo le Nazioni Unite, dei 7 miliardi e 600 milioni di persone che, a fine 2017, costituiscono la popolazione mondiale, oltre 1 su 30 è un migrante (cioè una persona che si trova fuori del paese in cui è nato o è residente): si tratta di 258 milioni di individui, il 3,4% di tutti gli esseri umani del pianeta. Dei 258 milioni di migranti, l’81,6% è rappresentato da abitanti del Sud del mondo e la stragrande maggioranza (circa 230 milioni) è costituita da migranti cosiddetti “economici” e loro familiari. Nell’Ue a 28 Stati, in base agli ultimi dati Eurostat al 1° gennaio 2017, i cittadini stranieri sono 38,6 milioni (di cui 21,6 non comunitari) e incidono per il 7,5% sulla popolazione complessiva. L’Italia non è né il paese con il numero più alto di immigrati né quello che ospita più rifugiati e richiedenti asilo. Con circa 5 milioni di residenti stranieri (5.144.000 a fine 2017, secondo l’Istat), viene dopo la Germania, che ne conta 9,2 milioni, e il Regno Unito, con 6,1 milioni, mentre supera di poco la Francia (4,6 milioni) e la Spagna (4,4). Anche l’incidenza sulla popolazione complessiva, pari all’8,5% (dato Istat), risulta più bassa di quella di Germania (11,2%), Regno Unito (9,2%) e diversi altri paesi più piccoli dell’Unione, dove i valori superano anche in maniera consistente il 10% (Cipro 16,4%, Austria 15,2%, Belgio 11,9% e Irlanda 11,8%).
L’edizione 2018 del Dossier Statistico Immigrazione , realizzata dal Centro Studi e Ricerche IDOS, in partenariato con il Centro Studi Confronti e con la collaborazione dell’Unar, è stata cofinanziata del Fondo Otto per mille della Chiesa Valdese e dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi e si è avvalsa del contributo di oltre un centinaio di ricercatori e studiosi.
I DATI  SUGLI IMMIGRATI IN ITALIA
In Italia, contrariamente alla credenza che vorrebbe il paese assediato e “invaso” dagli stranieri, al netto dei movimenti interni il loro numero è pressoché stabile intorno ai 5 milioni dal 2013; e la loro incidenza, nell’ordine dell’8% sempre dal 2013, aumenta di pochissimi decimali l’anno, soprattutto a causa della diminuzione della popolazione italiana, sempre più anziana (gli ultra65enni sono 1 ogni 4, mentre tra gli stranieri 1 ogni 25), meno feconda (1,27 figli per donna fertile, contro 1,97 tra le straniere) e tornata a emigrare verso l’estero (quasi 115.000 espatriati ufficiali nel corso del 2017: un dato sottodimensionato se si considera che molti, nel trasferirsi all’estero, trascurano di effettuare la cancellazione anagrafica, non essendo obbligatoria). Aggiungendo ai residenti stranieri la quota di immigrati che, alla data della rilevazione, non erano ancora iscritti nelle anagrafi, IDOS stima in 5.333.000 il numero effettivo di cittadini stranieri regolarmente presenti in Italia, 26.000 in meno rispetto alla stima del 2016. I soggiornanti non comunitari, in particolare, sono – secondo il Ministero dell’Interno e l’Istat – 3 milioni e 700mila, un numero sostanzialmente invariato da 3 anni, anche per la consistente diminuzione di quelli sbarcati: 119.000 (-62.000 rispetto al 2016).
Un calo divenuto ancor più drastico nel 2018, al punto che il boom di profughi che, attraversando il deserto e il Mediterraneo centrale, sono approdati sulle coste italiane può considerarsi esaurito proprio nel 2017, dopo quattro anni in cui ne sono giunti, nel complesso, circa 625.000. Infatti, secondo i dati Unhcr e Oim, mentre ancora nel 2017 l’Italia ha convogliato il 69% degli oltre 172.000 migranti forzati arrivati in Europa via mare, nei primi 9 mesi del 2018 il numero di persone sbarcate in Spagna (oltre 34.000) e in Grecia (più di 22.000) ha superato quello dell’Italia: poco più di 21.000, un dato “crollato” di circa il 90% rispetto allo stesso periodo del 2017.
La quasi chiusura della rotta del Mediterraneo centrale ha determinato anche la drastica riduzione dei minori stranieri non accompagnati (msna) giunti in Italia a seguito di soccorso in mare: a fronte degli oltre 25.800 del 2016, nel 2017 il loro numero è sceso a circa 15.800, per ridursi a 2.900 nei primi 7 mesi del 2018.
La stretta sulla rotta del Mediterraneo è dovuta ai nuovi accordi tra le autorità libiche e l’Italia (2017). La radicale riduzione degli arrivi è stata ottenuta pure a prezzo di un aumento vertiginoso dei morti in mare: secondo l’Oim, tra gennaio e settembre 2018 ben 1.728 in tutto il Mediterraneo, di cui 3 su 4 (1.260) nella sola rotta tra Libia e Italia, anche a causa della diminuita capacità di ricerca e soccorso in mare provocata dalla delegittimazione ed esclusione delle navi di Ong impegnate in tali operazioni (ad esse era dovuto circa il 35% dei salvataggi).
L’Oim calcola che, su complessivi 40.000 migranti deceduti in mare in tutto il mondo dal 2000 ad oggi, quelli morti nella rotta italo-libica siano ben 22.400. Un dato che rende ancora più prezioso il progetto pilota dei corridoi umanitari, avviato in Italia da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiede Evangeliche in Italia e Tavola Valdese, in intesa con i Ministeri dell’Interno e degli Affari Esteri, portando in Italia dal Libano, in modo sicuro e protetto, 1.249 richiedenti asilo (dato al luglio 2018), di varia nazionalità (siriani, palestinesi, iracheni, yemeniti). Nel giugno 2017 circa il 70% aveva ottenuto lo status di rifugiato e nessuna domanda si era risolta con un diniego. Anche la Cei, ancora in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio e i suddetti Ministeri, ha aperto un corridoio umanitario in Etiopia: a giugno 2018 erano 327 i profughi accolti, sui 500 previsti in 2 anni. Intanto questo modello italiano è stato ripreso prima dalla Francia e poi dal Belgio.
Attualmente l’Unhcr stima in 354.000 i richiedenti asilo (compresi quelli ancora privi di titolo formale o la cui domanda è sotto esame) e titolari di protezione internazionale o umanitaria presenti in Italia, lo 0,6% dell’intera popolazione del paese.
Se per un verso il numero assoluto colloca l’Italia al terzo posto nell’Ue, dopo la Germania (1,4 milioni di richiedenti e titolari di protezione, con questi ultimi che da soli ammontano a circa 1 milione) e la Francia (400mila), l’incidenza sulla totalità degli abitanti è perfettamente in linea con la media comunitaria, al pari di quella della Francia e dei Paesi Bassi, ed è preceduta da vari paesi, come la Svezia (2,9%), l’Austria e Malta (1,9%), la Germania e Cipro (1,7%), la Grecia (0,8%), mentre non superano lo 0,1% tutti i “nuovi” Stati membri dell’Europa orientale (ad eccezione della Bulgaria, con lo 0,3%).
I PAESI DI PROVENIENZA
Gli immigrati che risiedono in Italia provengono da quasi 200 diversi paesi del mondo. Per la metà (2,6 milioni) sono cittadini di un paese europeo (di cui 1,6 milioni, pari al 30%, comunitari), mentre un quinto (1 milione) viene dall’Africa e una quota solo di poco inferiore dall’Asia. Gli americani sono circa 370.000 (7,2%), per lo più cittadini latino-americani (6,9%). I romeni costituiscono la collettività di gran lunga più numerosa (1.190.000 persone, pari al 23,1% di tutti i residenti stranieri), seguiti da albanesi (440mila e 8,6%), marocchini (417mila e 8,1%), cinesi (291mila e 5,7%) e ucraini (237mila e 4,6%). Queste prime 5 collettività coprono la metà (50,1%) dell’intera presenza straniera in Italia, mentre le prime 10 (per arrivare alle quali occorre aggiungere, nell’ordine, Filippine, India, Bangladesh, Moldavia ed Egitto) arrivano a poco meno dei due terzi (63,7%).
DOVE RISIEDONO
Con l’83,1% di tutti i residenti stranieri, il Centro-Nord continua ad essere l’area che ne catalizza la quota di gran lunga più consistente, con il Nord Ovest che ne detiene la percentuale più elevata (33,6%). In particolare la regione che conta la presenza più numerosa è la Lombardia (1.154.000 residenti stranieri, il 22,9% del totale nazionale), seguita da Lazio (oltre 679.000 e 13,5%), Emilia Romagna (536.000 e 10,6%, cui si aggiunge il primato della incidenza più alta, a livello nazionale, sulla popolazione complessiva: 12,0%), Veneto (più di 487.000 e 9,7%) e Piemonte (circa 424.000 e 8,4%).
Nella sola Città metropolitana di Roma si concentra il 10,8% di tutti gli stranieri residenti in Italia (557.000 individui), in quella di Milano un ulteriore 8,9% (459.000) e in quella di Torino un altro 4,3% (220.000).
NUOVI NATI STRANIERI
In Italia il numero dei nati da genitori entrambi stranieri diminuisce costantemente di anno in anno dal 2013: si è infatti passati da poco meno di 82.000 nel 2012 a quasi 68.000 nel 2017, sebbene – per il fatto che anche la popolazione italiana conosce un progressivo declino della natalità – l’incidenza dei nuovi nati stranieri si mantenga stabile a circa un settimo di tutte le nascite annue del paese (14,8% nel 2017). Questo graduale adeguamento della popolazione immigrata ai comportamenti riproduttivi della popolazione autoctona ha tuttavia comportato che il tasso di fecondità delle donne straniere, pur restando più alto – come già visto – di quello delle italiane, da qualche anno è sceso al di sotto della “soglia di sostituzione” (2,1 figli per donna fertile), per cui il loro sostegno alla natalità generale del paese sarà sempre meno consistente, con ripercussioni sul sistema di ricambio generazionale a livello produttivo e previdenziale.
Un secondo aspetto rilevante è che, in questi recentissimi anni, appare in crescita il numero di persone che lasciano l’Italia per trasferirsi all’estero, non solo italiane ma anche straniere (queste ultime, stando al dato – sottodimensionato – delle cancellazioni anagrafiche per l’estero, sono state 41.000 nel 2017) o italiane di origine straniera, cioè diventate italiane per acquisizione della cittadinanza (32.000, contro le circa 27.000 del 2016).
In generale, mentre i cittadini italiani di origine asiatica lasciano l’Italia per trasferirsi per lo più in un altro paese Ue, i nativi dell’America Latina tendono invece a tornare nel proprio paese d’origine. In ogni caso, questa circostanza, insieme alla precedente, sembra preoccupantemente mostrare come, italiani o stranieri che siano, l’Italia è sempre meno un paese per giovani.
UN’INTEGRAZIONE INCOMPIUTA
In 45 anni di immigrazione in Italia, la popolazione straniera si è inserita nel tessuto sociale in maniera sempre più strutturale: basti pensare che sono diventati cittadini italiani 1 milione e mezzo di stranieri, dei quali 147.000 nel corso del 2017 (-27,3% rispetto agli oltre 201.000 del 2016); d’altra parte, IDOS stima in circa 1 milione e 300mila gli stranieri nati in Italia (“seconde generazioni”), oltre un quarto di tutti i residenti stranieri.
Di costoro, più di mezzo milione (503.000 giovani) è seduto tra i banchi di scuola e costituisce ormai i due terzi degli 826.000 alunni stranieri del paese, quasi un decimo (9,4%) di tutti gli scolari in Italia (dati Miur relativi all’a.s. 2016/2017). Molti di questi giovani di “seconda generazione” sarebbero potuti diventare italiani se nel settembre 2017 il Parlamento avesse finalmente approvato la riforma della legge sulla cittadinanza, imperniata sullo ius culturae (sebbene impropriamente detta “dello ius soli”) e certamente non destinata ai profughi sbarcati in Italia, come pure molti credevano (o avevano lasciato erroneamente intendere). Del resto, tra tutti i non comunitari regolarmente presenti in Italia ben 2 su 3 (2.390.000) sono titolari di un permesso permanentemente valido, o perché hanno maturato almeno 5 anni di ininterrotto soggiorno regolare (lungo-soggiornanti) o perché diventati parenti stretti di un cittadino comunitario già residente in Italia, per lo più italiano, ad attestare un grado di radicamento e stabilità ormai consolidato.
Dei restanti 1.325.000 titolari di un permesso a termine (35,7%), che denota una presenza e uno status giuridico più precari, 3 su 4 sono in Italia per motivi familiari (39,3%) o di lavoro (35,2%), i quali indicano generalmente un’intenzione di permanenza stabile.
INSERIMENTO SOCIALE
Ancora si riscontrano disparità nell’accesso a misure assistenziali o a servizi essenziali di welfare, come gli asili nido, le mense scolastiche, i bonus bebè e i sostegni per famiglie indigenti, al cui riguardo alcune Amministrazioni locali hanno emanato ordinanze puntualmente bocciate dai giudici, in quanto discriminatorie.
Anche nell’accesso al mercato della casa gli stranieri restano particolarmente penalizzati, sia per gli affitti, a causa della frequente e dichiarata indisponibilità dei proprietari a locare a stranieri, sia per gli acquisti, a causa delle difficoltà di ottenere un mutuo. Ne consegue che quasi 2 stranieri su 3 abitano in affitto, spesso in coabitazione, e solo 1 su 5 in case di proprietà (di metratura mediamente limitata e soprattutto in contesti residenziali popolari e di periferia), mentre il resto abita o presso i datori di lavoro o da parenti e amici, a volte anche in condizioni di sovraffollamento.
Le discriminazioni, poi, dilagano in internet, con un aumento esponenziale di discorsi d’odio razzista, spesso sulla base di rappresentazioni distorte che riguardano anche la religione di appartenenza, fomentando l’idea – come si sente spesso dire – che siamo “invasi da musulmani”, mentre tra gli immigrati i cristiani sono la maggioranza assoluta (2.706.000, pari al 52,6% del totale, secondo la stima di IDOS), con preminenza degli ortodossi (1,5 milioni) e dei cattolici (oltre 900.000), mentre i musulmani sono 1 ogni 3 (32,7%, pari a 1.683.000 persone).
IL LAVORO
La credenza che gli immigrati rubino il lavoro agli italiani è, da anni, smentita dalla realtà: dei 2.423.000 occupati stranieri nel 2017 (10,5% di tutti gli occupati in Italia), ben i due terzi svolgono professioni poco qualificate o operaie (nelle quali sono rispettivamente un terzo e un ottavo degli addetti), siano esse nel settore dei servizi, dove i lavoratori stranieri si concentrano per oltre i due terzi (67,4%), o in quelli dell’industria e dell’agricoltura (dove trovano impiego rispettivamente nel 25,6% e nel 6,1%). Non sorprende, quindi, che siano sovraistruiti più di un terzo di essi (34,7%, contro il 23,0% degli italiani, per uno scarto di oltre 11 punti percentuali). In particolare, è straniero il 71% dei collaboratori domestici e familiari (comparto che impiega il 43,2% delle lavoratrici straniere), quasi la metà dei venditori ambulanti, più di un terzo dei facchini, il 18,5% dei lavoratori negli alberghi e ristoranti (per lo più addetti alle pulizie e camerieri), un sesto dei manovali edili e degli agricoltori. Inoltre i lavoratori immigrati restano ancora schiacciati nelle nicchie di mercato caratterizzate da impieghi pesanti, precari, discontinui, poco retribuiti, spesso stagionali e caratterizzati da sacche di lavoro nero (o grigio) e, quindi, di sfruttamento.
In questo quadro, i disoccupati stranieri sono calcolati in 406.000, un settimo di tutte le persone in cerca di occupazione in Italia, per un tasso di disoccupazione del 14,3% a fronte del 10,8% relativo agli italiani. La scarsa mobilità professionale degli stranieri, tipica di un mercato rigidamente stratificato come quello italiano, li inchioda poi in situazione di subordine, che si riflette nel differenziale retributivo: in media, un dipendente italiano guadagna il 25,5% in più rispetto a uno straniero (1.381 euro mensili contro 1.029), mentre le donne straniere guadagnano in media il 25,4% in meno dei connazionali maschi. Proprio riguardo alla penalizzazione femminile, colpisce l’elevata quota di giovani straniere di 15-29 anni appartenenti alla categoria dei Neet (persone che né lavorano né seguono un percorso di formazione o tirocinio): ben il 44,3%, a fronte del 23,7% delle loro coetanee italiane.
Si tratta di un dato connesso all’allarmante fenomeno dell’inattività femminile, che colpisce immigrate con più bassi titoli di studio e soprattutto di alcune collettività: a fronte di una media del 44,1% riguardante le donne straniere in generale (43,9% per le sole non comunitarie), le pakistane, egiziane e bangladesi raggiungono tassi di inattività di oltre l’80% (fonte Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali).
REDDITO DICHIARATO
Nel 2016, quello dichiarato da cittadini stranieri è stato complessivamente di 27,2 miliardi, pari a una media annua pro capite di 12.000 euro, inferiore di quasi 10.000 euro a quella degli italiani (circa 21.600 euro). Come evidenzia la Fondazione Leone Moressa, su tali redditi i contribuenti stranieri hanno versato Irpef per 3,3 miliardi di euro, che sommati ad altre voci di entrata, riconducibili a cittadini stranieri (tra cui 320 milioni solo per i rilasci/rinnovi dei permessi di soggiorno e le acquisizioni di cittadinanza e 11,9 miliardi come contributi previdenziali), assicurano un introito nelle casse dello Stato pari a 19,2 miliardi di euro, che paragonati con i 17,5 miliardi di spesa pubblica dedicata agli immigrati (il 2,1% dell’intera spesa pubblica nazionale), rendono il bilancio statale tra entrate e uscite imputabili all’immigrazione positivo di un importo che oscilla tra 1,7 e 3 miliardi di euro.
È notevole, inoltre, che nel 2017 i lavoratori stranieri tesserati ai tre sindacati confederati (Cgil, Cisl e Uil) siano circa 975.000 (+45.000 rispetto al 2016), l’8,5% degli iscritti. In particolare, le categorie sindacali con le incidenze più alte di iscritti stranieri sono quelle dei comparti delle costruzioni (dove essi superano il 25%), dell’agricoltura (dato di poco inferiore), del commercio e dei servizi (dove sfiorano il 20%), dei trasporti e della logistica (dove mediamente superano il 10%). La voglia di riscatto, alimentata dalla frustrazione di un mercato del lavoro dipendente oltremodo avaro, trova nel lavoro autonomo la sua migliore esplicazione: in Italia sono quasi 590.000 le imprese guidate da immigrati (il 9,6% di tutte quelle attive), aumentate anche negli anni della crisi economica. Talora si tratta di ditte e aziende in grado dare impiego anche a lavoratori italiani.