Media e immigrazione: parole “rovesciate”, giornalisti “spaventatori” e percezioni indotte da minchiate “internazionali”

Diciamolo chiaro, senza l'accondiscendenza dell'informazione e di molti giornalisti, certi personaggi politici si guarderebbero bene da fare alcune dichiarazioni e probabilmente le loro fortune elettorali, vere o presunte, sarebbero sgonfiate sul nascere. Questo è avvenuto oggi più che in passato spesso per mera stupidità nello sparare titoloni ad effetto, altre volte per interessi non certo di cui potersi vantare e altre volte per scarsa professionalità. Spacciare un senso falsato della notizia per la quale, ricordiamolo deve vigere il principio della verità del fatto narrato non solo contraddice al buonsenso ma è anche violazione deontologica grava visto che la narrazione di una notizia va intesa con la sostanziale corrispondenza tra fatti come sono accaduti e i fatti come sono narrati. Ed invece è passato il principio di imporre in maniera spesso surrettizia la percezione della eventuale conseguenza di fatti alla realtà stessa delle cose. Poco importa se i fatti vengono riportati come virgolettato nella narrazione di un Ministro o di un segretario di partito. Le notizie false sono false e basta e un giornalista dovrebbe evidenziarlo. Ma detto questo, che diventa discrimine fra un bravo professionista ed un mediocre maggiordomo dell'informazione, si è creata una nuova categoria di giornalisti che se ne “inpippano” del fatto che solo la verità, come correlazione rigorosa tra il fatto e la notizia appunto, soddisfa le esigenze dell’informazione. Fra l'altro questo diventa un boomerang potentissimo nelle mani di chi vorrebbe l'estinzione dei giornalisti (partendo dalla abolizione dell'ordine) sostituiti con dei più comodi e malleabili “comunicatori”. Forse anche per questo, recentemente è stato coniato un nuovo termine che fotografa queste categorie di persone, sono gli “spaventatori”. Giornalisti e propagandisti vari che, parlando di immigrazione, mistificano i fatti e le parole, contribuendo così ad accrescere ansie e paure nella popolazione. Lo fanno attraverso un uso distorto del lessico, mutuato quasi sempre dalla politica: un linguaggio disumanizzante, che si è progressivamente incattivito e che spinge sulla leva delle emozioni, con le persone migranti al centro di uno scontro non soltanto politico, ma anche di valori. E che negli ultimi anni si va inasprendo. Basta leggere il VI rapporto su Media e immigrazione redatto dall’associazione Carta di Roma (dal nome del codice deontologico per i giornalisti che trattano i temi legati alle migrazioni), in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia. Il rapporto presentato l’11 dicembre scorso presso la Camera dei Deputati, s’intitola “Notizie di Chiusura”, e analizza le prime pagine di cinque quotidiani e i Tg di sette reti generaliste, più una parte dedicata ai commenti sugli account Facebook delle principali testate. “Li chiameremo spaventatori anziché giornalisti perché fanno un mestiere che viola costantemente le regole base dell’informazione, le regole deontologiche e, soprattutto, la ricerca sostanziale dei fatti” ha spiegato il presidente di Carta di Roma, Valerio Cataldi. Cataldi si riferisce all’uso di parole che ormai sono diventate patrimonio di quella percezione dell'insicurezza cara non solo al suo inventore ma che ha contagiato in nome del “contratto di Governo” e delle poltrone ad esso collegato l'intera coalizione governativa giallo-verde. Sono parole che ben conosciamo, quali “pacchia, invasione, crociera, clandestino” che usate abilmente anche contro il loro significato effettivo, unite a dati distorti, hanno costruitoun teorema malefico con cui la politica fa la sua propaganda. I problema è che questi termini rimbalzano su giornali e telegiornali senza contradditorio. “Abbiamo assistito a trasmissioni televisive in cui politici parlavano di miliardi di africani pronti a partire, quando neanche esistono miliardi di africani – spiega – Tutto questo avveniva in studi televisivi nei quali a quelle parole, a quei numeri così distanti dalla realtà, non veniva posto un argine, non veniva chiesto un chiarimento”. Ma c'è di più. Spiega sempre Massimo Cataldi facendo un esempio “scolastico”: “La parola che ha preceduto la crisi della nave Aquarius ed il rifiuto senza precedenti delle autorità italiane ad accogliere i naufraghi nei porti della penisola, è la parola “pacchia”. Come è noto quella parola la pronuncia il neoministro dell’Interno Matteo Salvini in piena campagna elettorale per le amministrative. È il 2 giugno, in una piazza di Vicenza, Salvini dice «per i clandestini è finita la pacchia». È uno slogan, pura propaganda. Una frase che contiene “clandestini”, il vecchio termine preferito dagli spaventatori di professione per criminalizzare i migranti e la nuova parola “pacchia” che la Treccani ci ricorda essere un «deverbale di pacchiare, “mangiare con ingordigia”, usato per indicare una condizione di vita facile e spensierata». In una sola frase c’è il corredo completo della mistificazione e della distorsione della realtà che la politica produce costantemente quando parla di migranti. Il problema è che la semplificazione pur nella sua falsità è di estrema efficacia mediatica soprattutto per quel deserto dell'intelligenza che sono spesso i “social” che in quel caso furono inseguiti in maniera praticamente acritica dai media che fecero una enorme cassa di risonanza a quella che era una minchiata stratosferica. Insomma la diffusione di bugie e del linguaggio mistificatorio continua ad aumentare come l’uso della parola “invasione” sui titoli, e questo nonostante nel 2018 gli arrivi siano diminuiti dell’80 per cento rispetto all’anno scorso e non certo per merito delle “chiusure dei porti). Purtroppo l’informazione resta centrata sul tema con lo stesso tono ansiogeno da emergenza permanente che riproduce ormai da anni”. Lo stesso termine “clandestino”, denigrante e scorretto, permane nel lessico dei titoli, registrando un aumento esponenziale a partire dal 2017. Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale stampa italiana, parla non a caso di “parole rovesciate” – di orwelliana memoria – ma anche di parole ambigue, come ad esempio “ordine”: “applicata all’immigrazione diventa sempre “sinonimo di ‘ordine pubblico’ e mai di ‘ordine sociale’”. Ne consegue una percezione falsata, che si riflette in maniera automatica nelle pagine senza filtro – e senza mediazione – dei social network, tra commenti carichi di odio e fake news condivise a ciclo continuo. Pagine che nella visione di qualcuno dovrebbero essere la nuova frontiera dell'informazione. Insomma il problema è che il linguaggio che riguarda il tema migrazioni ma ciclicamente anche altre questioni, basta pensare alla “cronaca” di eventi delittuosi trattati con enfasi eccessiva o con descrizione di particolari raccapriccianti o le ricostruzioni delle Procure e degli inquirenti che raramente vengono riprodotte in forma critica dal giornalismo italiano, figuriamoci da blogger più o meno improvvisati che non rispondono a nessuno, spesso neppure ad un cervello.

Fabio Folisi