“Mal di vita”, pandemia da due secoli

goethe_faust1Se dobbiamo proprio datare l'acuirsi del malessere psicologico tanto da diventare un fenomeno sociale capace di modificare la cultura del tempo, il XX e il XXI secolo non detengono di certo il primato. E' nel XIX secolo che si annidano nel profondo dando frutti amarissimi tutte le contraddizioni dell'essere umano.
L'Ottocento è stato l'inizio di tante cose, sia dal punto di vista scientifico, filosofico che sociale. Il secolo dell'industrializzazione e delle grandi città, il secolo del proletariato e della borghesia, il secolo dei grandi ideali e delle grandi aspettative nei confronti del futuro. Ma progresso e benessere hanno molti rovesci di medaglia e parecchie contraddizioni. L'aumentata mobilità sociale, l'incompiutezza, l'instabilità, la precarietà delle gerarchie, in questo periodo confondono le ambizioni, provocando irresolutezza, sconforto e inquietudine. Lo sforzo della borghesia di costruirsi un ruolo sociale invidiato, una personalità di successo, fa della vita di tutti i giorni un esame e una prova continua, aumentando angoscia e paura del fallimento. E, di conseguenza, la paura di vivere. Ecco allora il tripudio della depressione, la paralisi della volontà; il male del secolo come lo definì il poeta de Musset.
E come se non bastasse, mentre le certezze iniziano a vacillare si aggiunge la coscienza nuova di un dovere di felicità che altera profondamente il rapporto tra desiderio e sofferenza.
Ed è in un baleno che arriviamo alla noia, al famoso spleen di Baudelaire, che aumenta in modo deleterio il senso di colpa verso sé stessi.
La psicanalisi, inoltre, ai suoi entusiastici esordi, non fa altro che amplificare questi disagi, portando tutti gli individui vittime di leggeri malesseri, al convincimento d'essere deboli di mente, e mai come in questo secolo, le corrispondenze epistolari sono pregne di angosce, timori e tristezza.
Come se non fossero sufficienti le “prigioni” della mente, nell'Ottocento inizia a diffondersi nella classe dominante una nuova paura, qualcosa che in breve si trasformerà in ossessione: il mostro.
Li conosciamo tutti romanzi come dottor Jekyll e mister Hyde di Stevenson, o Frankenstein (il moderno Prometeo) di Mary Shelley, o tantissimi altri racconti dickensiani, ma a rincarare la dose sulla componente bestiale dell'uomo non sono soltanto gli scrittori, ma i giornalisti che, al tempo, iniziano a trovare nella cronaca nera un prospero filone.
E infatti, non fu solo il caso di Jack lo squartatore ad assumere fama a livello mondiale, ma anche gli orrori di molti altri mostri, come il parricida Pierre Rivière o l'orchessa di Sélestat, che nel 1817 divorò la coscia del figlio dopo averla fatta cuocere con cavoli bianchi, avendo per giunta cura di conservarne un pezzo per il marito, il vignaiolo Antoine Léger. E a proposito del marito non si può certo dire che fosse un buon partito dal momento che, nel 1823, succhiò il cuore di una ragazzina dopo averla sventrata. Insomma, i fatti che testimoniano lo stretto legame tra l'uomo e la bestia sono i più ambiti dalla stampa del tempo e la vita nei sobborghi proletari, o nelle campagne più sperdute, sono l'ideale per dare l'immagine di un'umanità legata a doppia mandata con l'animalesco tanto che la società borghese inizia ad avere vere e proprie repulsioni nei confronti dei poveracci. 04

Insomma il mostro è in agguato, «gli orchi evadono dall'ameno recinto delle fiabe».
La presenza del “selvaggio” scava nel profondo, in breve il mostro è qualcosa che si genera all'interno del nostro organismo. E qui compare un fenomeno squisitamente ottocentesco: “la famiglia patologica”. Il concetto di ereditarietà al tempo gode di grande consensi e i medici insistono con l'affermare tare ereditarie “del mostro” dovute dalla vita misera, insalubre, dalla mancanza di igiene, dall'immoralità. La paura di essere contaminati dal morbo della mostruosità del popolo si trasforma così in una vera nevrosi. In breve, le “isterie urbane” e le neuropatie degli artisti, suggeriscono l'ipotesi di un legame diretto tra civilizzazione e degenerazione. Secondo Benedict Morel l'uomo che si allontana dalla propria natura originaria, degenera inevitabilmente, così l'uomo cacciato dal paradiso non può che andare verso la deriva, allontanato dalla legge morale asservito ai desideri animali. Per circa 30 anni la teoria dell'eredità morbosa conquista anche i laici più colti. Nulla, dunque, impedisce di immaginare una progressiva decadenza dell'uomo.
Nasce così anche il concetto di “marchio” impresso nella morfologia in un immaginario museo di tarati di mente e di esseri deformi; concetto per il quale più avanti Lombroso andrà a nozze.
«Ogni famiglia - scrive Jean Borie - vive asseragliata in un torrione medioevale con in fondo alle botole una popolazione spaventosa accovacciata in agguato».
Insomma, sono tanti i fattori di disagio e sofferenza che caricano il XIX secolo. E mai come in questo periodo, il disperato appello contro il fallimento della comunicazione si manifesta in suicidio.
E il suicidio, mai come in questo periodo, affascina. La visita all'obitorio, per la voglia morbosa di guardare i corpi freddi stesi sui tavoli di marmo, entra a far parte dei riti domenicali delle famiglie parigine. L'indebolimento della volontà di vivere va di pari passo con la crescente insicurezza; l'individuo che si rende conto di non costituire più di per sé un fine sufficiente, perde la capacità di illudersi, condizione che può portare al “suicidio egoista” così come viene definito da Durkheim nel 1897.
f8ea1c7aff521bedaac5eab4cbe3ce1e_XLI fattori a rischio sono il pesante impegno sociale con l'aumento di fallimento e disillusione; l'isolamento e il celibato, mentre il matrimonio o la presenza dei figli attenuano la voglia di autodistruzione. Secondo le statistiche del tempo i suicidi degli uomini sono quattro volte superiori a quelli delle donne. La predisposizione aumenta con l'età. Le categorie più soggette sono agli antipodi della scala sociale: da una parte ci sono coloro che vivono di rendita, gli intellettuali e in generale coloro che esercitano professioni liberali, o che fanno parte delle gerarchie dell'esercito. Il che potrebbe far supporre che il desiderio di morte aumenti con l'aumentare del livello culturale e del grado di coscienza individuale. Ma altrettanto forte è la presenza di suicidi fra i domestici, soprattutto verso la fine del secolo, quando prendendo coscienza del loro ruolo, cresce la frustrazione. Numerosi i suicidi tra i carcerati e fra coloro che non hanno lavoro.
Più della metà degli uomini che decidono di togliersi la vita, sceglie di impiccarsi, un quarto si annega, il resto sceglie di spararsi con un colpo in testa o nel petto; ma sono congedi molti elitari. La metà delle donne, invece, scelgono l'annegamento; il 30% si impicca. Cresce con il tempo la morte per avvelenamento. I suicidi del XIX secolo avvengono solitamente al mattino, a volte di pomeriggio ma raramente alla sera o di notte. Il numero decresce dal venerdì alla domenica. Crescono da gennaio a giugno e diminuiscono da luglio a dicembre. In conclusione sembra che le giornate più lunghe, la presenza del sole, il risveglio della natura spingano ad uccidersi in misura maggiore delle angosce notturne o dei rigori dell'inverno.
A dirla tutta, non c'è una grossa differenza tra le cause del disagio ottocentesco e quelle dei tempi odierni. Anzi, quasi avessero ragione gli studiosi del tempo, la degenerazione della specie continua semplicemente a fare il suo corso. Forse oggi siamo più vicini a una dirittura d'arrivo, chissà. Sì perché se c'è qualcosa di profondamente diverso tra gli individui del XIX secolo e noi del XXI, è che i primi avevano il senso del futuro e, paradossalmente, nutrivano grandi speranze per il progresso. Ma noi, vittime di un progresso che ormai ci è sfuggito di mano, il futuro non lo riusciamo proprio a immaginare, avendo perfino smarrito le chiavi di lettura del presente.