L’intrigo dello Yemen

Nonostante lo scarso interesse con cui è seguito nel nostro paese, il conflitto in Yemen merita la massima attenzione per via della sua natura di tipico intrigo mediorientale e, ça va sans dire, di flagello per gli abitanti di un paese apparentemente marginale e purtuttavia ritrovatosi in questi mesi al centro del mondo oltre che del mirino. Gli ingredienti di una tragedia dall’acre sapore arabo, con l’ovvio retrogusto religioso e le prevaricanti spezie geopolitiche, ci sono tutti. C’è, anzitutto, un colpo di stato, con un presidente spodestato ed esule, Abd Rabbih Mansur Hadi, e il suo predecessore 'Ali 'Abd Allah Saleh che spera di tornare in sella attraverso alleanze improbabili. C’è la retrostante lotta intestina, che affonda le radici nella storia travagliata di un paese diviso tra molteplici ed irriducibili fazioni che perseguono le rispettive agende politiche pur esibendo, alla fine della fiera, un fiero carattere tribale. Gli scontri yemeniti mostrano poi una tipica anima settaria, con la consueta linea di faglia tra le due grandi confessioni islamiche dello sciismo da un lato, qui rappresentato dalla minoranza degli Houthi, e del sunnismo dall’altro. Sullo sfondo dei combattimenti si intravede quindi, nitidamente, l’ingerenza delle potenze della regione, in un esacerbarsi dell’antico duello tra la confinante Arabia Saudita, centro di irradiazione del verbo wahhabita che continua a brigare per avere la fedeltà della comunità islamica mondiale, e un Iran che persevera nel presentarsi come campione di un credo rivoluzionario da esportare ovunque e che, per giocare questa partita a scacchi, ricorre alla tattica di sostenere attori locali, siano essi rappresentati da minoranze come gli Houthi, da milizie come gli Hezbollah libanesi o da regimi come quello del despota di Damasco, Bashar al-Assad. Non poteva inoltre mancare, in questa bailamme, la presenza interessata dell’Occidente, con in primo piano gli Stati Uniti che appoggiano una coalizione, quella intessuta dall’Arabia Saudita e dai suoi clienti del Golfo, che si è tuttavia mobilitata anche per via del timore, giustificato, del venir meno del ruolo di garante dell’ordine nella regione da parte dell’America del rinunciatario Obama, ma anche alla luce del sospetto, non meno giustificato, che la Casa Bianca sia disposta a cedere alla Repubblica islamica l’egemonia nell’area in cambio di un’intesa sul suo programma nucleare, che costituirebbe una delle poche (e improbabili) medaglie da apporre sul petto di una presidenza fallimentare, almeno nel campo della politica estera. E che dire poi dell’immancabile oro nero, croce e delizia del mondo arabo, i cui copiosi rivoli trovano nello stretto yemenita di Bab el-Mandeb uno snodo cruciale e quindi attentamente sorvegliato dal benzinaio capo saudita. Dulcis in fundo, ecco stagliarsi l’ombra del terrorismo, che in Yemen si manifesta sotto la forma di un qaedismo residuale anche se niente affatto innocuo, come dimostra la firma apposta sugli attentati di Parigi dello scorso 7 e 9 gennaio, i cui perpetratori nutrivano rapporti proprio con la filiale yemenita di Al Qaida, meglio nota con la sigla AQAP. In mezzo a tutti questi movimenti visibili e invisibili si trova, purtroppo, la popolazione civile, che patisce le conseguenze dei bombardamenti aerei della coalizione a trazione saudita ma anche i colpi di artiglieria degli insorti sciiti, in una situazione umanitaria che aggrava una situazione già precaria prima dello scoppio delle ostilità, con penuria delle più elementari condizioni di dignità umana. I caduti innocenti di questa tragedia civile ancor prima che politica continuano ad accatastarsi, mentre il flusso di profughi rischia di interessare una fetta niente affatto inconsistente dei ventiquattro milioni di yemeniti. Nel definire un “genocidio” quanto sta accadendo qui, nell’estremo sud della penisola araba, la guida suprema della Repubblica islamica, l’ayatollah Khamenei, sta ovviamente celando le responsabilità del suo paese, che in Yemen ha distaccato i quadri dei suoi Guardiani della Rivoluzione a sostegno di una ribellione, quella degli Houthi, che Teheran alimenta da tempo con spedizioni di armamenti di ogni tipo. Quanto all’altro burattinaio, l’Arabia Saudita, si trova nella paradossale condizione di ostacolare la presa del potere di una fazione che dovrebbe teoricamente rappresentare il principale alleato nella lotta contro l’insidia qaedista, principale nemico della sua stabilità, che è appostata proprio lungo i 1.700 chilometri di confine che separano il regno dallo Yemen. Proprio un tipico intrigo mediorientale.

Marco Orioles