La Lega, la leva e la “difesa” professionale

Prima di intraprendere qualsiasi ragionamento sulla proposta di reintroduzione della leva avanzata da Forza Italia, cavallo di battaglia del Salvini nazionale, ed ora anche del presidente della regione Fedriga varrebbe la pena porsi almeno due domande. La prima: Salvini, Fedriga & co. hanno svolto il servizio militare obbligatorio? Non è una provocazione. Chi scrive svolse tale servizio, suo malgrado, nel lontano 2001 all’età di 27 anni. E la sensazione predominante, alla fine, fu senza dubbio quella di avere perso un sacco di tempo. Allora la leva veniva impiegata per smantellare se stessa (svuotando le caserme in fase di dismissione) mentre prima del 1989 era un’elefantiaca organizzazione con oltre 300mila soldati di truppa che attendevano di essere impiegati come fanteria d’arresto contro una improbabile e fantasiosa invasione sovietica. In Friuli, in ossequiosa ottemperanza alle direttive di Washington e della Nato, venne concentrato il 70% della forza operativa nazionale. Per comprendere l’estrema inutilità di quell’impiego vale la pena ricordare che in caso di conflitto tra i due blocchi la nostra regione sarebbe stata vaporizzata dal fuoco nucleare, con buona pace di tutti i fanti, delle mitragliatrici e degli obici qui dislocati. Eventualità peraltro ancora in essere considerato che il nostro Paese continua ad ospitare basi strategiche statunitensi in un periodo (oramai quasi trentennale) in cui gli stessi statunitensi hanno pretestuosamente lanciato contro la Russia una guerra fredda 2.0…

A ben vedere, il servizio militare obbligatorio che immagina il centrodestra è una mini-polpetta reazionaria, copia/incolla della vecchia naja, pensata per educare i giovani al “signorsì” e a rifarsi il letto, utile soltanto per istituzionalizzare e mettere in mimetica le odiose ronde anti-immigrati. Soldi buttati, oltre a quelli, circa 80 milioni di euro al giorno, che si spendono per mantenere l’esercito professionale, le esercitazioni continentali, le guerre, gli interventi e le occupazioni annesse targate NATO. Tutte cose che il centrodestra e nemmeno ciò che resta del centrosinistra si guardano bene dal mettere in discussione. La seconda domanda è la seguente: quando nasce e a cosa serve l’esercito professionale che tanto piace alla senatrice PD Tatiana Rojc (membro della commissione Difesa del Senato) e a Mauro Cedarmas (coordinatore regionale Mdp/Leu)? La risposta è semplice: a fare bene la guerra (cosa ben diversa dalla difesa del territorio e della “Nazione”). Ad ogni tipo di esercito corrisponde un uso peculiare e l’uso di quello professionale (strutturalmente molto più costoso) è di tipo offensivo da spedizione. L’esercito professionale trae il suo stesso senso d’esistere dall’essere impiegato come corpo di spedizione e occupazione, come il più adatto a svolgere questi compiti. Le forze di occupazione, per loro stessa definizione, hanno la missione di presidiare e combattere permanentemente o temporaneamente in territori situati al di fuori dei confini nazionali. La potenza o le potenze che invadono tali territori devono essere in grado di gestire avamposti, basi, aeroporti, rifornimenti e quindi devono disporre dello stesso personale per anni senza ricorrere alla mobilitazione generale che si dà in caso di guerra ufficialmente dichiarata (l’abitudine di formalizzare i conflitti è stata infatti abbandonata). Ecco quindi la necessità di una ferma volontaria di almeno quattro anni. Dal 1991 l’Italia è infatti un paese oggettivamente belligerante (senza avere mai subito alcuna minaccia) e schierato su scala planetaria sia in ambito Nato che a livello bilaterale con gli Stati Uniti. Dopo la fine della guerra fredda (momento storico davvero propizio per una concreta politica di disarmo) gli Stati uniti hanno rilanciato la loro struttura militare planetaria e la loro leadership nella Nato. La (contro)riforma delle Forze armate in senso professionale è stata la chiave di volta tecnica e giuridica di questa inedita belligeranza italiana/europea. Esiste una sconfinata letteratura ufficiale che comprova funzioni, scopi, obiettivi ed appunto “necessità” della professionalizzazione europea delle forze armate. Ma siamo davvero sicuri che il destino di questo disgraziato Paese sia quello di essere parte attiva delle politiche neocolonialiste degli Stati Uniti e della democratica Europa a trazione militare francese? Perché solo a questo serve il moderno esercito professionale (in realtà, dal punto di vista democratico e costituzionale, molto più “antico” di quello di leva). L’Italia dovrebbe puntare ad un profilo neutrale, ponte mediterraneo di cooperazione e scambio, diventare promotore di distensione e concrete politiche di disarmo. Una riforma delle Forze armate dovrebbe essere coerente ed organicamente collegata alla revisione sostanziale della nostra politica estera e industriale. Questa riforma dovrebbe contemplare l’abbandono della professionalizzazione e la reintroduzione della leva (compresa l’obiezione di coscienza) ma evitando accuratamente di operare un nostalgico ritorno al passato. Oggi risulta sempre più chiaro che le vere minacce all’incolumità delle persone e al patrimonio pubblico e privato sono rappresentate dal montante caos climatico e dalle conseguenze ambientali del capitalismo: dissesto idro-geologico, alluvioni, terremoti, avvelenamento del suolo, dell’aria e delle falde, incendi.
Di fronte a tali minacce, di fronte a cui l’esercito professionale ha ampiamente dimostrato la sua strutturale inutilità, sarebbe opportuno che la logistica e l’organizzazione venissero rivolte e convertite, in prevalenza, ad un nuovo concetto di difesa territoriale/ambientale, che metta le Forze armate nelle condizioni di gestire sia aspetti di manutenzione e messa in sicurezza ambientale sia soprattutto le sempre più ricorrenti e spesso contemporanee fasi d’emergenza integrandosi, col supporto di uomini e mezzi, all’azione della Protezione civile, del corpo dei Vigili del fuoco, dei Corpi forestali delle regioni a statuto speciale e dei Carabinieri forestali (se mai diventeranno operativi dopo l’infausta legge Madia che ha sciolto la Guardia Forestale). In questo senso sarebbe ragionevole studiare e promuovere la formazione di un nuovo esercito costituzionale, di leva, aperto a donne e uomini.
La nuova leva dovrebbe trattenere soltanto una quota minima dei/delle giovani per l’inquadramento militare e dovrebbe poter dirottare la maggioranza degli uomini e delle donne verso il servizio civile no-profit/pubblico e la Protezione civile (in fondo un anno da dedicare alla collettività non pare un’imposizione così illiberale). La Protezione civile, che oggi si basa sul volontariato (con grossi limiti oggettivi), avrebbe a disposizione da una parte un organico che le consentirebbe di intervenire anche nella manutenzione ambientale in maniera efficace e continuativa, dall’altra il supporto di logistica, mezzi e personale che l’esercito potrebbe dispiegare nelle fasi di emergenza acuta.
Tale integrazione, potrebbe produrre risparmi consistenti, consentirebbe sinergie d’impiego in grado di colmare una cronica carenza di mezzi dedicati alle emergenze ambientali riducendo la irrazionale moltiplicazione delle responsabilità, delle competenze, dei comandi, dei dirigenti, delle centrali operative, degli eli-aereoporti. Potremmo avere a disposizione uno strumento popolare, meno costoso e più efficace di salvaguardia e difesa del territorio.

Gregorio Piccin