LA GRANDE GUERRA

Tutte le tappe del primo conflitto mondiale

 

L'attentato di Sarajevo

L'attentato di Sarajevo

Lo sparo di Sarajevo

Non sapeva, non poteva sapere, Gavrilo Princip che la sua pistola era puntata contro la tempia dell'Europa in quel 28 giugno a Sarajevo: lui, nazionalista serbo, voleva soltanto uccidere Francesco Ferdinando.
E poi non sapeva, non poteva sapere, che la sua pistola sarebbe stata decisiva: l'attentato c'era già stato, a mezza mattina, ed era fallito. La bomba, lanciata da un certo Cabrinovic (secondo “Il Piccolo” di Trieste), in realtà Veliko Cubrilovic, era caduta sull'auto del principe, ma era rimbalzata sulla strada e aveva ferito due dignitari nell'auto di scorta e sei persone fra il pubblico. Non poteva sapere, Princip, che Francesco Ferdinando, dopo la cerimonia ufficiale in municipio, aveva voluto andare all'ospedale per salutare i feriti, e per questo sarebbe ripassato sullo stesso percorso dell'andata, con una lenta (e casuale) manovra proprio davanti a lui, che sul marciapiede stava mangiando un panino: incredulo, il diciassettenne Gavrilo estrasse la Browning e sparò, con mano ferma, al principe e a Sofia Hohenberg, sua moglie.BeFunky_sarajevo-28-giugno-1914.jpg-1000x600
La morte per attentato, aveva detto Umberto I, è un rischio del mestiere per un re. Anche Sissi era morta per rischio del mestiere, senza per questo far scoppiare il finimondo.
Ma qualcuno, dopo lo sparo, pensò che la Serbia, ostile alla Drang nach Osten (espansione verso oriente dell'Impero viennese) andava umiliata e punita, e l'assassinio del principe ereditario era l'occasione imperdibile, da sfruttare subito, anche ricorrendo alla forza militare.
La punizione della Serbia era, naturalmente, un pretesto, posto che in gioco c'era la spartizione dell'Impero ottomano o turco, che da molti anni dava segni di instabilità e di fragilità.
La Germania, l'Austria e l'Italia si erano preparate al banchetto balcanico fin dal 1882, quando avevano firmato il Trattato della Triplice Alleanza, che all'articolo 7 contemplava compensi territoriali all'Italia in caso di mutazioni politiche nei Balcani.
La guerre, si dovrebbe sempre ricordare, non sono fulmini a ciel sereno: sono esecuzioni di piani preparati con molto anticipo, naturalmente mascherati da nobili ideali (amor di patria, difesa o diffusione della cristianità, esportazione della democrazia nei paesi islamici...).
No, non fu lo sparo di Princip, a scatenare l'inferno.

Gavrilo Princip, l'arresto

Gavrilo Princip, l'arresto

La guerra italo-turca, conclusa con la pace di Losanna nell’ottobre del 1912, accese l’appetito di Vienna, di Mosca e di altri piccoli Stati.
Nicola di Montenegro aggredì l'impero ottomano e trascinò nella guerra dapprima la Bulgaria e la Serbia, poi la Romania e la Grecia.
Ad Adrianopoli gli aggressori costrinsero alla resa senza condizioni l'Impero ottomano, ma subito la Romania aggredì la Bulgaria, accanto a Serbia e Grecia, mentre bande armate albanesi combattevano contro serbi e greci.
Ognuna delle guerre nei “maledetti Balcani” fu definita sanguinosa dalla nostra stampa, ma breve e localizzata: un incendio controllabile.
Anche altrove in Europa, per la verità, sotto le ceneri erano pronte le braci per accendere “conflitti locali”: la Francia era decisa a vendicare il 1870; l'Italia voleva concludere l'unificazione nazionale a spese dell'Austria.
Si trattava di “guerre potenziali”, che lo sparo di Sarajevo e l'ultimatum dell'Austria alla Serbia del 23 luglio (ne parleremo in un successivo articolo) avevano reso più “convenienti”.
Una Germania schierata con l'Austria contro la Serbia indeboliva, almeno teoricamente, l'eventuale fronte del Reno. L'Austria impegnata lontano dal Carso e dall'Isonzo accendeva l'appetito dell'Italia per le terre d'oltre Judrio...
Princip accese il cerino, ma fu Francesco Giuseppe ad avvicinarlo alla miccia. La polveriera era già pronta.
Le salme dei principi assassinati furono trasportate per mare fino a Trieste dalla “Viribus Unitis” e poi su carrozze funebri fino alla Stazione della Meridionale.
Guardando le fotografie del corteo, che si snodò nel silenzio di due ali di folla attonita, rotto soltanto dagli zoccoli dei cavalli, si ritrova un clima di grave tensione e di cupa angoscia. Nessuno dei presenti immaginava, il 2 luglio 1914, di assistere al funerale dell'Europa.

Il funerale dell'Europa

Trieste il 2 luglio 1914

Quando la “Viribus Unitis”, scortata da una decina di navi e torpediniere, gettò l'ancora davanti alla Piazza Grande nel tardo pomeriggio del primo giorno di luglio, le campane di tutte le chiese di Trieste “sonarono a mortorio”: trasportava infatti le salme dei principi assassinati a Sarajevo.
La parole fra virgolette sono tratte da “Il Piccolo” del 2 luglio 1914, che pubblica il programma del solenne funerale.
“Per lo sbarco delle salme - scrive il giornale – è stata parata una grande maona addobbata a lutto, la quale già alle 7 ant. sarà rimorchiata sotto bordo della “Viribus Unitis”. Alle 7.45 precise i due feretri saranno calati nella maona, nella quale prenderà posto una scorta d'onore. Un “tender” della marina di guerra rimorchierà la maona fin sotto la riva di Piazza Grande, dove le salme saranno sbarcate e deposte su due catafalchi.
assassinio_di_SarajevoLe truppe di terra e di mare, nonché le guardie di polizia, di finanza, la gendarmeria, che faranno ala durante il passaggio del corteo funebre, si recheranno ad occupare i posti loro assegnati alle 6 ant. Le autorità, le rappresentanze, le associazioni si raduneranno alla riva alle 7.30. Il principio della cerimonia religiosa, che sarà celebrata dal vescovo Karlin, assistito da tutto il clero della città, seguirà alle 8 e durerà circa una mezz'ora. Vi interverrà anche il clero di tutte le altre confessioni. Poi il corteo si metterà in moto. Un drappello di guardie di p.s. a cavallo, (…) si metterà alla testa del corteo. Alle 8.30 si metteranno in moto le due prime compagnie di fanteria del battaglione combinato. Seguiranno sei carri di corone a tiro due, con palafrenieri. Poi verranno i portatori delle croci e il clero seguito dal vescovo Karlin con mitria e piviale funebri. Seguirà poi il feretro della duchessa di Hohenberg e quindi quello dell'arciduca Francesco Ferdinando e immediatamente dietro le personalità del seguito. Quindi il Luogotenente principe di Hohenlohe, il comandante della marina ammiraglio Haus, il Podestà, i generali, gli ammiragli, i funzionari di tutti i dicasteri dello Stato dalla quinta classe in su, il Presidente della Camera di Commercio. Verrà poi tutto il corpo degli ufficiali, le autorità autonome, la rappresentanza del Comune e quella della Camera di Commercio, le associazioni e le deputazioni. Seguiranno quindi altre due compagnie del battaglione combinato. Il corteo sarà chiuso da un altro drappello di guardie di p.s. a cavallo. Il corteo funebre arriverà alla stazione della Meridionale alle 9.20. Le salme tolte dai carri funebri saranno portate attraverso l'atrio da sottufficiali della marina da guerra fino al vagone mortuario. Colà le salme alle 9.30 riceveranno dal vescovo una nuova assoluzione ed il treno speciale si metterà in moto alle 9.50. Già da ieri sera il vestibolo della stazione della Meridionale è stato trasformato in una vasta sala, tutta parata a lutto e ornata di sempreverdi. E pure ieri sera sono incominciati sulla riva del Mandracchio i lavori di allestimento dei due catafalchi”. assassinio_di_Sarajevo_3
Orari, sequenze, precedenze, cerimonie: un programma perfetto, rispettato al millesimo e al millimetro, perché l'Austria, come sappiamo, “era un paese ordinato”. Un programma realizzato nel silenzio di una folla che si sentiva testimone di un funerale che, molto probabilmente, non si sarebbe concluso con la sepoltura a Vienna.
Il Piccolo dell'1 luglio, infatti, in prima pagina aveva titolato su tutte le colonne: “Dopo la tragedia di Seraievo. Un invito ufficiale al governo di Belgrado di allargare in Serbia l'inchiesta sul complotto”. La Neue Freie Presse, scrive il giornale, riferisce che il ministro degli esteri conte Berchtold comunicò l'intenzione di rivolgere al governo di Belgrado la “preghiera di allargare in Serbia l'inchiesta condotta in Bosnia contro gli autori dell'attentato, poiché tutte le traccie della congiura conducono, in modo da escludere ogni dubbio, in Serbia”.
Commento del giornale: “La comunicazione destò impressione poiché non si prevedono le conseguenze alle quali condurrebbe un eventuale rifiuto del Governo serbo”.
Sì, quel giorno le campane di Trieste sonarono a mortorio per la vecchia Europa.

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Dopo gli spari di Sarajevo, il cordoglio dei falsi amici e la caccia al serbo

8 luglio 2014

Il duplice assassinio del 28 giugno a Sarajevo destò l'unanime cordoglio dei governi europei e diede inizio alla caccia al serbo.
Seguiremo i due fenomeni sulle pagine del quotidiano “Il Piccolo”, stampato e letto nell'Impero, esprimendo ammirazione per la completezza dell'informazione, preziosa anche a cent'anni di distanza dai fatti.
Dopo l'edizione straordinaria del 28 giugno, una sola facciata listata a lutto distribuita come “esemplare gratuito” nel primo pomeriggio (l'attentato era avvenuto nella tarda mattinata), il giornale uscì il giorno 29 ripetendo il titolo in prima pagina: “L'arciduca Francesco Ferdinando e la consorte duchessa di Hohenberg uccisi in un attentato a Seraievo”.
funerale+francesco+ferdinando+corsoLa pagina, zeppa di notizie, conteneva una minuziosa descrizione degli avvenimenti del giorno precedente, e si concludeva con un ritratto, comprensibilmente agiografico, dell'arciduca.
Ma per noi posteri, la parte più preziosa è la sezione intitolata “I commenti dei giornali italiani”.
Ecco quanto scrisse il “Giornale d'Italia”: “In questo momento in cui all'improvviso così grave lutto ha colpito il vecchio e fedele alleato del nostro re, il venerato Imperatore Francesco Giuseppe, l'intera famiglia imperiale degli Asburgo e i popoli dell'alleata Monarchia a.-u. [austro-ungarica], noi crediamo di renderci interpreti del sentimento dell'intero popolo italiano esprimendo le nostre più profonde condoglianze per la grave perdita che il fedele alleato deve oggi deplorare con la morte prematura e violenta dell'erede del trono. Coll'animo reverente e pieno di simpatia noi c'inchiniamo in quest'ora tragica di fronte a tanta sventura che ancora una volta si abbatte sul capo canuto del saggio Imperatore, percosso da un fato esecrando e inesorabile”.
Questo il commento della “Tribuna”: “Oggi il nostro pensiero atterrito e sgomento, commosso e reverente, corre alla figura veneranda del vecchio Imperatore Francesco Giuseppe. Il mondo s'inchina allibito, dolente del suo dolore, dinanzi al vegliardo che amò sempre la pace nel mondo ed ebbe sempre la più giusta ricompensa. In Italia l'impressione per l'assassinio di Serajevo e l'affettuosa simpatia per Francesco Giuseppe in questo momento sono tanto più forti in quanto il nostro paese ha avuto ed ha nel vecchio Imperatore più che un alleato un amico fidato, sicuro e sereno”.
Scontate, infine, l'esecrazione, la condanna e la “sentita, vivissima simpatia per l'augusta casa d'Asburgo, già crudelmente provata da tante sciagure” dell'“Osservatore Romano”.sofia+e+franz
Spostiamoci ora a Sarajevo. Nel pomeriggio del 28 giugno i congiurati, che erano una decina, non furono tutti ugualmente determinati. Uno di essi non ebbe il coraggio di tirare la bomba; Cabrilovich la tirò, ma l'arciduca la deviò con la mano sinistra ed esplose in strada; poi, come sappiamo, la mano ferma di Princip chiuse la partita, e gli altri conclusero che ormai era inutile continuare a lanciare bombe. I congiurati, tutti serbi, dimenticarono, tuttavia, di suicidarsi con la capsula di cianuro che tenevano in tasca, e così, subito fermati dalla polizia, iniziarono a parlare.
Il quadro eversivo apparve chiaro: i congiurati, serbi, avevano trovato la complicità di serbi residenti in Bosnia, ma il filo della congiura si allungava fino a Belgrado.
Già nel pomeriggio del 28 giugno, appena iniziarono a circolare le prime “indiscrezioni”, a Sarajevo iniziò la caccia al serbo, e presto le “battute di caccia” si estesero a Tuzla, Zagabria, Brno e nella stessa Vienna.
“Il Piccolo” del 30 giugno scrive di “Una giornata di cordoglio e di tumulti a Seraievo”, e, in taglio basso, riferisce su “La proclamazione del giudizio statario” nella capitale della Bosnia-Erzegovina: una serie di proibizioni che, se violate, comportavano il giudizio sommario e la pena di morte entro tre ore dalla sentenza! E subito fu innalzata la forca per le esecuzioni.
I giornali di Belgrado, naturalmente, si affrettarono a condannare il duplice assassinio, a denunciare le violenze contro i serbi in Bosnia, ma non mancarono di osservare che la scelta del 28 giugno (San Vito) per le manovre militari, suonava come una provocazione alla cultura serba, che considera sacro quel giorno.
Era iniziata la guerra dei giornali, che sarebbe durata un mese.

Tra Austria e Serbia: preghiera e ultimatum

Se “Il Piccolo” del 1° luglio, citando la “Neue Freie Presse” di Vienna, può affermare che il ministro degli esteri conte Berchtold, “comunicò che il Governo a.-u. ha intenzione di rivolgere al r. Governo serbo la preghiera di allargare in Serbia l'inchiesta condotta in Bosnia contro gli autori dell'attentato”, ciò significa che l'Austria, fin dal primo momento, aveva scelto la strada più pericolosa, per se stessa e per tutti.
Il quotidiano di Trieste commentò: “La comunicazione destò impressione, perché non si prevedono le conseguenze alle quali condurrebbe un eventuale rifiuto del Governo serbo”. Commento onesto, ma ingenuo: non era possibile che il governo a.-u. non sapesse quel che voleva ottenere: una guerra locale contro la Serbia. Ciò che non aveva calcolato è che nessuno può garantire la localizzazione delle guerre, neanche se brevi e risolutive.
In quella riunione, di fatto un consiglio di guerra, Berchtold, Conrad e Krobatin avevano iniziato a scrivere l'atto di morte dell'impero, con il consenso dell'Imperatore.

Berchtold

Berchtold

Dagli archivi sappiamo, infatti che Francesco Giuseppe, per definizione saggio e amante della pace, il 5 luglio chiese aiuto al Kaiser per eliminare la Serbia dalla carta geopolitica della penisola balcanica, e la risposta di Guglielmo II del 6 luglio fu la cosiddetta “cambiale in bianco”.
Berchtold, per prospettare la “preghiera di allargamento dell'inchiesta”, ricorse ai giornali, non alle vie diplomatiche (nessuna comunicazione ufficiale neanche all'alleata Italia fino al 22 luglio), ai quali si rivolse anche il conte Andrassy, capo dell'opposizione nel Parlamento di Vienna, per diffondere il suo pensiero sulla crisi, dapprima sul suo giornale, il “Magyar Hirlap”, poi attraverso la “catena di Sant'Antonio” delle agenzie di stampa e dei principali giornali europei.
Questo il testo su “Il Piccolo” del 4 luglio: “Tutto il mondo comprende che non si tratta del delitto di un singolo ma di un misfatto politico collettivo. A che scopo siamo uno Stato civilizzato con leggi e con un esercito, se la nostra coppia ereditaria non può muoversi a suo talento entro il proprio paese senza pericolo di vita? A che scopo siamo una grande potenza, se degli Stati esteri grandi o piccoli decidono della vita della nostra gente entro i nostri confini? A che scopo siamo al mondo? V'è ancora qualcuno, dal re al più misero mendicante, che sia ancora sicuro della vita in questa monarchia abbandonata alla mercè dei suoi nemici? Dobbiamo noi invadere la Serbia? Non lo domandiamo ma non escludiamo neppure questa eventualità. Pensiamo che forse non ci resterà altra scelta. O siamo in grado di farci rispettare o siamo perduti. O la preziosa esistenza testé recisa è l'ultima vittima della nostra debolezza, o l'arciduca ereditario sarà morto inutilmente e noi non ridiverremo mai vivi. Tiriamoci una revolverata alla testa se i nostri cannoni non valgono più a proteggerci contro le rivoltelle serbe”.
Tutti convinti, quindi, che bisognava punire la Serbia “manu militari”, dall'Imperatore a Berchtold (governo) ad Andrassy (opposizione).
E così, mentre i lettori dei giornali erano attratti (e distratti) dai riti di trasporto delle salme, dalle messe di suffragio celebrate nelle principali città d'Europa (Belgrado, Roma, Berlino, Londra, Mosca, Copenhaghen...), dagli esiti dell'inchiesta di Sarajevo, a Vienna si stava preparando il suicidio dell'Impero e della vecchia Europa.
“Il Piccolo”, tuttavia, non stacca gli occhi dalla legge sul “giudizio statario” (una specie di legge marziale) estesa a tutta la Bosnia-Erzegovina, da “La campagna antiserba e le ritorsioni della stampa di Belgrado” ed è molto attento alla situazione internazionale. Così scrive il 4 luglio: “Data la minaccia di conflitti con la Serbia (…) a Peterhof, sotto la presidenza dello zar, ha avuto luogo una seduta straordinaria di tutto il consiglio dei ministri, al quale si attribuisce straordinaria importanza. La seduta cominciò con un'esposizione del ministro degli esteri Sassonof sulla situazione politica in relazione al misfatto di Serajevo. Fu discusso se le agitazioni antiserbe potrebbero condurre eventualmente a complicazioni internazionali e quali misure sarebbero da prendere contro queste complicazioni con riguardo alla dignità e agli interessi della Russia”.
È, questo, il primo segnale che la guerra, se ci sarà, non potrà essere ridotta a un match Austria-Serbia sotto l'ombrello del Kaiser.

I giornali in guerra, parole come proiettili

La prima guerra mondiale scoppiò il 28 giugno 1914 a Sarajevo, ma per un mese dall'Austria e dalla Bosnia furono sparate parole stampate su fogli di carta inchiostrata: la parola, per così dire, sarebbe passata ai cannoni un mese più tardi.
I giornali serbi, che si sentivano assediati, rispondevano ai fogli dell'Impero e anche a quelli della Bulgaria.
I giornali di Vienna e di Belgrado erano naturalmente condizionati dalle posizioni dei rispettivi governi, mentre molto più liberi si sentivano quelli dei paesi non direttamente coinvolti nella crisi. È grazie alla loro buona abitudine di presentare vere e proprie rassegne della stampa se oggi possiamo agevolmente ricostruire il clima di quei giorni.
I giornali italiani adoperavano un linguaggio riguardoso verso l'Austria e il suo Imperatore, ostentavano rispetto e amicizia, ma si sentivano al riparo da un coinvolgimento diretto perché l'Italia, pur legata da alleanza agli imperi centrali, non era tenuta a intervenire in un eventuale conflitto armato fra Austria e Serbia: il Trattato della Triplice Alleanza, infatti, aveva uno scopo difensivo, come esplicitamente stabiliva l'articolo 4.
Noi, per rispondere alla domanda: “Come furono informati gli udinesi e i friulani?”, abbiamo studiato le pagine de “La Patria del Friuli” e del “Giornale di Udine”, disponibili nelle raccolte (incomplete) della Biblioteca Comunale della nostra Città.
“La Patria”non rinunciò al suo “a plomb” neanche di fronte alla catastrofe. Il 30 giugno uscì come al solito con la “Cronaca provinciale” in prima pagina, riservando tre lunghe colonne in seconda agli aggiornamenti sull'inchiesta di Sarajevo, alla commemorazione dell'arciduca nel nostro Parlamento, all'applicazione del “diritto statario” (legge marziale) a Sarajevo.
Il 2 luglio in prima, accanto alla solita “Cronaca provinciale”, prospettò un'Esposizione regionale nel 1916 per solennizzare il mezzo secolo di unione della Provincia di Udine all'Italia, e riservò ai funerali dei principi assassinati e alla crisi balcanica le solite due colonne in seconda.
Il 3 aprì con “La distruzione degli uccelli in rapporto all'agricoltura in Italia”.
Il 4 riservò il posto d'onore alla terza puntata di un lunga recensione della Biennale di Venezia, e in seconda riferì sui funerali di Vienna e, come “Il Piccolo”, pubblicò il giudizio del conte ungherese Andrassy, capo dell'opposizione, propugnatore di un'invasione della Serbia.

conte ungherese Andrassy

conte ungherese Andrassy

Il 5 luglio pubblicò in prima lo “Schizzo di un sottopassaggio”, indispensabile per eliminare i disagi che si verificavano ogni giorno davanti alla Porta Aquileia per le manovre delle locomotive. A quello che per gli altri giornali era il tema del giorno dedicò appena cinque righe in seconda per dire che il Kaiser farà visita a Francesco Giuseppe non appena sarà conclusa la sua crociera nel nord.
L'ordine dei fattori si inverte sul “Giornale di Udine”, che riserva la prima pagina alla tragedia di Sarajevo e alle sue conseguenze, ma senza accentuazioni emotive e senza insistenze. Il 4, il 5 e il 7 luglio, ad esempio, non fornisce alcuna notizia, mentre il giorno 6 presenta in prima un riassunto, più che una recensione, de “La Monarchia degli Asburgo”, saggio scritto da un inglese che lamenta l'asservimento ai gruppi di potere dei giornali austro-ungarici, in larga parte in mano agli israeliti, a suo dire.
L'11 luglio, in prima, pubblica una nota su “L'Italia e la Triplice Alleanza nei giudizi del principe di Bülow”, libro di recente pubblicazione.
Il 15 dà notizia della grave crisi di borsa causata, a Vienna e a Budapest, dall'incerto esito della partita balcanica, ma la partenza per le vacanze estive del ministro della guerra e di alti militari lascia pensare che l'Austria “ricorrerà, nel conflitto con la Bosnia, soltanto a mezzi diplomatici”.
Il 19 luglio riferisce il giudizio espresso da Lloyd George a Londra alla luce dei risultati ottenuti dal suo ministro Edward Grey: “Quantunque la pace sia stata mantenuta nel mondo, pure avvi ancora qualche nuvola sull'orizzonte internazionale, che il buon senso, la pazienza e le buone disposizioni varranno certo a dissipare”.
Quando queste parole furono stampate, mancavano soltanto quattro giorni alla presentazione dell'ultimatum dell'Austria alla Serbia!

Perché punire la Serbia?

Una grerra “lampo” durata quattro anni

prima-guerra-mondialePerché punire la Serbia? No, non per l'assassinio dei principi a Sarajevo.
Vediamo di mettere un po' d'ordine nelle idee, tenendo eventualmente d'occhio una carta della Balcania.
Nel 1877/78 la pace seguita alla guerra russo-turca trovò la sua definizione nel Trattato di Berlino, firmato il 13 luglio 1878.
Quel Trattato voleva dare uno stabile assetto politico alla penisola balcanica, ma alla lunga finì per essere causa di altre guerre (come più tardi il più noto Trattato di Versailles).
Nel 1878 a Berlino nacquero come stati indipendenti la Serbia, la Romania, la Bulgaria (sotto controllo militare russo), il Montenegro; e per quanto riguarda la Bosnia-Erzegovina fu scelta una formula ambigua, riconoscendo all'Austria-Ungheria, che già possedeva la Dalmazia, un diritto di occupazione e di amministrazione (non di annessione).
Quando l'Austria-Ungheria ritenne troppo pericoloso per i suoi interessi il movimento panslavista della Serbia, nel 1908 decise, sotto la protezione del Kaiser, di annettere la Bosnia-Erzegovina.
La mossa austriaca produsse una crisi di rilevanti dimensioni fra i blocchi austro-tedesco e serbo-russo: una prova generale della crisi del luglio 1914, conclusa con la dichiarazione del 31 marzo 1909:
“La Serbia riconosce che essa non è stata colpita nei suoi diritti dal fatto compiuto creato in Bosnia ed Erzegovina e che per conseguenza essa si conformerà a quella decisione che le Potenze prenderanno in relazione dell'art.25 del trattato di Berlino. Rimettendosi ai consigli delle grandi potenze la Serbia si impegna fin d'ora ad abbandonare l'attitudine di protesta e di opposizione che essa aveva adottata dall'autunno scorso riguardo all'annessione e si impegna a modificare l'indirizzo della sua politica attuale vero l'Austria-Ungheria, per vivere ormai con quest'ultima su un piede di buon vicinato”.
Il testo di questa dichiarazione fu richiamato in premessa all'ultimatum del 23 luglio, per dimostrare al mondo che la Serbia, consentendo la propaganda antiaustriaca, tollerando l'esistenza della “Mano nera” e di altre organizzazioni eversive, favorendo il passaggio di armi ed esplosivi verso Sarajevo, aveva mancato a un solenne impegno, ed era giusto chiedere spiegazioni e riparazioni (non in termini territoriali, assicurava l'Austria).
Passiamo ora al riassunto della drammatica sequenza di giorni che precedette il coro dei “cannoni d'agosto”:
1. L'Austria (il lupo) si credeva ancora una grande potenza, nel 1914, ma in realtà era un burattino delle mani della Germania. Entrambe commisero, in ogni caso, gravi errori di valutazione sulla reale capacità di attrazione e di espansione del conflitto austro-serbo. La Serbia (l'agnello) aveva a sua volta velleità imperialiste (era uscita vittoriosa e “allargata” dalle recenti guerre balcaniche del 1912/13), giustificate dal nazionalismo panslavista, ma a differenza dell'Austria sapeva di essere un burattino in mano alla Russia.
2. Il 23 luglio il lupo presentò l'ultimatum, redatto in modo che l'agnello non potesse accettarlo se non rendendosi vassallo del lupo.
3. Il 25 l'agnello diede una risposta giudicata ovviamente insoddisfacente, e il lupo decise la mobilitazione parziale del suo esercito.
4. Il 28 il lupo dichiarò guerra all'agnello.
Russian_infantry_1914_railroad5. Il 29 il burattinaio dell'agnello (la Russia) autorizzò la mobilitazione parziale dell'esercito, che il 30 divenne completa.
6. Anche il lupo (l'Austria), il 31 luglio, mobilitò tutto l'esercito, e il suo burattinaio (la Germania) presentò l'ultimatum alla Francia e dichiarò guerra alla Russia.
7. Il 3 d'agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia (prima di scagliarsi contro la Russia: una faccenda da sbrigare in fretta, passando per il Belgio secondo il Piano Schlieffen).
8. La Gran Bretagna, vista minacciata la neutralità del Belgio, dichiarò guerra alla Germania.
9. Il Friuli orientale (dallo Judrio all'Isonzo, Gorizia, Gradisca, Monfalcone) entrò in guerra il 28 luglio 1914. Il Friuli centro-occidentale (Provincia di Udine) sarebbe entrato in guerra il 24 maggio 1915.
10. La guerra doveva essere breve, secondo le previsioni dei governi, ma finì quattro anni più tardi: diciassette milioni di morti, venti milioni di feriti e mutilati, immense ricchezze bruciate per un'inutile strage.

I dieci giorni che cambiarono la vecchia Europa ...

L'Italia dalla Triplice Alleanza alla dichiarazione di neutralità

Firma della Triplice Alleanza fra Germania, Austria e Italia. 20 maggio 1882

Firma della Triplice Alleanza fra Germania, Austria e Italia. 20 maggio 1882

Dopo gli spari di Sarajevo l'Italia, pur alleata di Austria e Germania, venne a trovarsi in una botte di ferro. Il Trattato del 1882, infatti, all'articolo 4 stabiliva il carattere difensivo dell'alleanza, e quindi il diritto di neutralità delle potenze alleate nel caso che una di esse avesse intrapreso una guerra di aggressione. E l'articolo 7 stabiliva che se fosse stato modificato l'assetto politico nella penisola balcanica, l'Italia avrebbe avuto diritto a compensi territoriali (non precisati e naturalmente non a danno dell'Austria: in Balcania, in Turchia o più lontano!).
Fu proprio l'esistenza di questi due articoli a indurre l'Austria e la Germania a non comunicare i loro piani all'Italia nel luglio del 1914.
Pur nel silenzio diplomatico delle due alleate, l'Italia percepiva chiaramente l'atmosfera sempre più cupa e pesante che gravava sull'Europa e diede buoni consigli alla Serbia (scioglimento delle associazioni ultranazionaliste e antiaustriache, e accettazione delle condizioni di un eventuale ultimatum), che furono rifiutati, e fece sapere a Vienna, ma senza esito, che la Russia non avrebbe lasciato sola la Serbia.

Umberto I, Guglielmo II, Francesco Giuseppe

Umberto I, Guglielmo II, Francesco Giuseppe

Il 22 luglio l'ambasciatore austriaco a Roma, rompendo il silenzio, fece sapere al governo italiano che si stava profilando una guerra contro la Serbia, ma non parlò dell'ultimatum, che fu ufficialmente notificato all'Italia, e alle altre potenze in campo, soltanto il giorno 24.
Eravamo ormai entrati nei dieci giorni che avrebbero cambiato per sempre la vecchia Europa, e per quanto riguarda la nostra regione conviene leggere qualche passo di Domenico Del Bianco, autore de “La guerra e il Friuli”:
"Si cercò subito di far capire che l'Austria-Ungheria muoveva contro la Serbia in perfetto accordo con l'Italia (...). L'autorità militare della Monarchia si affannava poi a far rilevare che gli italiani irredenti, richiamati alle armi avrebbero combattuto insieme ai loro fratelli d'oltre confine, con i quali si poteva ormai fraternizzare; comune nemico era il serbo...".
Per un paio di settimane gli irredentisti, che volevano la guerra contro l'Austria, si trovarono spiazzati. La banda musicale del 47° fanteria iniziò a percorrere le strade della Città di Gorizia suonando ogni giorno musiche patriottiche austriache e italiane, imitata dalle orchestrine che di sera allietavano i caffè. Così fino al 3 di agosto, quando l'Italia proclamò la sua neutralità, decisa dal Consiglio dei ministri il 2 agosto.
Questo l'incipit della dichiarazione: “Trovandosi alcune potenze d'Europa in istato di guerra ed essendo l'Italia in istato di pace con tutte le parti belligeranti, il governo del Re, i cittadini e le autorità del Regno hanno l'obbligo di osservare i doveri della neutralità secondo le leggi vigenti e secondo i princìpi del diritto internazionale. [...]”. La dichiarazione, che sorprese anche gli ambasciatori d'Italia a Vienna e a Berlino, e lo stesso Stato maggiore dell'esercito, non cadde proprio come un fulmine a ciel sereno, perché già il 24 luglio Antonino di San Giuliano, ministro degli esteri, in un tempestoso incontro con l'ambasciatore austriaco, aveva denunciato il carattere aggressivo della guerra e reclamato compensi territoriali.
Una settimana più tardi, nel Consiglio dei ministri del 31 luglio 1914, San Giuliano disse che non si doveva uscire dalla Triplice Alleanza, ma che bisognava rimanere neutrali sia per l'avversione del popolo a una guerra a fianco dell'Austria, che per il quasi certo intervento della Gran Bretagna a favore dell'alleanza franco-russa, che infine per le precarie condizioni dell'esercito, provato dalla recente guerra di Libia.
In quel 3 di agosto ebbe inizio la guerra dei nervi fra gli Imperi centrali e l'Italia, e i primi a pagare furono gli emigranti friulani, costretti a un precipitoso rientro dalle fornaci di mattoni e da altre fabbriche dell'Impero asburgico.
"La maggior parte di questi infelici - scrive Del Bianco - i primi a provare le conseguenze della guerra, erano stati rimpatriati senza neppure aver percepito il salario, che per consuetudine, eccettuato quello dei viveri, veniva loro pagato al termine della stagione emigratoria. Molti di essi erano stati licenziati con appena i pochi denari necessari al viaggio in territorio austriaco, adducendo i datori di lavoro la impossibilità di pagare a causa della moratoria delle banche".
L'Italia rimase formalmente alleata di Austria e Germania fino al 24 maggio 1915.

Ultimatum alla Serbia

I-due-spari-che-cambiarono-il-mondo-Dichiarazione-di-guerra-300x175Il 3 luglio, il ministro degli esteri austriaco, conte Berchtold, stabilì che si dovesse tacere al marchese Antonino di San Giuliano, ministro degli esteri italiano, le bellicose intenzioni dell'Austria-Ungheria. San Giuliano, infatti, avrebbe immediatamente sollevato la questione dei compensi previsti dall'articolo 7 del trattato della Triplice Alleanza.
L'Austria era sola in questo atteggiamento ad un tempo incauto e spezzante, perché il ministro degli esteri tedesco Jagow riconobbe, in una lettera del 15 luglio, indirizzata al suo ambasciatore a Vienna Tschirschky, che l'Italia aveva diritto sia a rimanere neutrale di fronte ad una guerra austro-serba, sia ad essere ricompensata qualora l'Austria-Ungheria avesse acquisito territori nei Balcani anche solo temporaneamente.
Berchtold, dal suo canto, guardava con sufficienza all'Italia, che per lui era in una situazione militare e politica così precaria, a causa degli strascichi della guerra di Libia, da non essere pronta per un intervento attivo. Tuttavia, all'ultimo momento, il ministro austriaco fece in modo che il suo ambasciatore a Roma, Kajetan Mérey, incontrasse San Giuliano. Quest'ultimo fu così informato che una guerra austro-serba era imminente, ma non gli furono comunicate le pesanti condizioni poste a Belgrado. San Giuliano rispose che l'unica preoccupazione dell'Italia concerneva le questioni territoriali e che nel caso l'Austria-Ungheria avesse turbato l'equilibrio in Adriatico, avrebbe dovuto compensare l'Italia.

San Giuliano

San Giuliano

Quando il 24 luglio San Giuliano prese visione dei particolari dell'ultimatum, protestò violentemente con l'ambasciatore tedesco a Roma, Hans von Flotow, presente anche il presidente del Consiglio Antonio Salandra, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna. L'Italia pertanto, secondo il ministro, non aveva l'obbligo, dato il carattere difensivo della Triplice alleanza, di aiutare l'Austria, anche nel caso in cui la Serbia fosse stata soccorsa dalla Russia. Dopo la sfuriata di San Giuliano, però, Flotow fece capire che, qualora l'Italia avesse assunto un atteggiamento benevolo verso Vienna, dalla vicenda avrebbe potuto ottenere compensi territoriali.
Quali le condizioni dell'ultimatum dell'Austria alla Serbia?
Dopo una lunga premessa nella quale l'Austria accusò la Serbia di aver disatteso la dichiarazione d'intenti rivolta alle grandi potenze alla fine della crisi bosniaca, il governo di Vienna intimò a quello di Belgrado di far pubblicare sulla "Rivista ufficiale" serba del 26 luglio una nuova dichiarazione, di cui riportava il testo. Essa impegnava la Serbia a condannare la propaganda anti-austriaca, riconosceva la complicità di funzionari e ufficiali serbi nell'attentato di Sarajevo e impegnava Belgrado a perseguire per il futuro con il massimo rigore tali macchinazioni.

San Giuliano e il ministro degli Esteri austriaco Leopold Berchtold ad Abbazia, Austria (oggi Croazia), nell'aprile 1914

San Giuliano e il ministro degli Esteri austriaco Leopold Berchtold ad Abbazia, Austria (oggi Croazia), nell'aprile 1914

Il governo serbo si doveva impegnare inoltre:
«1. A sopprimere qualsiasi pubblicazione che inciti all'odio e al disprezzo nei confronti della monarchia austro-ungarica […];
2. A sciogliere immediatamente la società denominata Narodna Odbrana e confiscarne tutti i mezzi di propaganda, nonché a procedere in ugual modo contro altre società e loro branche in Serbia coinvolte in attività di propaganda contro la monarchia austro-ungarica [...];
3. A eliminare senza ulteriore indugio dalla pubblica istruzione del proprio paese [...] qualunque cosa induca o potrebbe indurre a fomentare la propaganda contro l'Austria-Ungheria;
4. A espellere dall'apparato militare e dalla pubblica amministrazione tutti gli ufficiali e i funzionari colpevoli di propaganda contro la monarchia austro-ungarica i cui nomi e le cui azioni il governo austro-ungarico si riserva il diritto di comunicare al Regio governo [serbo];
5. Ad accettare la collaborazione in Serbia di rappresentanti del governo austro-ungarico per la soppressione del movimento sovversivo diretto contro l'integrità territoriale della monarchia [austro-ungarica];
6. Ad adottare misure giudiziarie contro i complici del complotto del 28 giugno che si trovano sul territorio serbo; delegati del governo austro-ungarico prenderanno parte all'indagine a ciò attinente;
7. A provvedere con la massima urgenza all'arresto del maggiore Voijslav Tankošić e di un funzionario serbo a nome Milan Ciganović, che i risultati delle indagini dimostrano coinvolti nella cospirazione;
8. A prevenire con misure efficaci la cooperazione delle autorità serbe al traffico illecito di armi ed esplosivi oltre frontiera, a licenziare e punire severamente i funzionari dell'ufficio doganale di Schabatz e Loznica, rei di avere assistito i preparatori del crimine di Sarajevo agevolandone il passaggio oltre frontiera;
9. A fornire all'Imperial regio governo [austro-ungarico] spiegazioni in merito alle ingiustificate espressioni di alti ufficiali serbi […] i quali [...] non hanno esitato sin dal crimine del 28 giugno a esprimersi pubblicamente in termini ostili nei confronti del governo austro-ungarico; e infine;
10. A notificare senza indugio all'Imperial regio governo [austro-ungarico] l'adozione delle misure previste nei precedenti punti.
Era evidente che alcune di queste condizioni non potevano essere accettate da uno Stato sovrano, e il 28 luglio Francesco Giuseppe chiamò i suoi popoli a punire la Serbia.

Un gruppo di soldati serbi sulla linea del fronte

Un gruppo di soldati serbi sulla linea del fronte

 

 

 

 

 

 

I due lutti che cambiarono il corso della storia “mondiale”

Le disgrazie d'Italia prima della Grande guerra

Quel deposito sedimentale del “presente” che noi chiamiamo “passato”, cioè la storia, ha la caratteristica dell'immutabilità (quel che è stato è stato, si suol dire, oppure il passato non si cambia), ma nulla ci impedisce di riflettere su ciò che sarebbe potuto essere se il regista e gli attori fossero stati altri, e dunque sulle concause, talora misteriose o casuali, che hanno conferito agli eventi l'andamento che noi conosciamo.
A questo pensavamo, in questi mesi di rievocazioni e riflessioni sulla prima guerra mondiale, sollecitati anche da una singolare coincidenza di date: il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Alberto Pollio e il Ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano, entrambi nati nel 1852, entrambi morti nel 1914, poco tempo dopo gli spari di Sarajevo. Pollio morì d'infarto il 1° luglio, San Giuliano di gotta il 16 ottobre.

Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Alberto Pollio

Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito Alberto Pollio

Che cosa sarebbe accaduto se non fossero morti in quei giorni?
Davanti all'immutabilità del passato dobbiamo rispondere: “non sappiamo”. Ma esaminando le loro biografie è possibile immaginare qualcosa di diverso di quanto accadde dopo la loro morte.
Il tenente generale Pollio era considerato un “fedele triplicista”, cioè rispettoso del Trattato d'alleanza con Austria e Germania del 1882, ma durante la sua permanenza nella carica suprema dell'Esercito (dal 1908 alla morte) intensificò la costruzione delle difese alpine a nord-est, e formulò un piano di guerra contro l'Impero quando si convinse che Germania e Austria stavano preparando una guerra contro la Francia. D'altra parte il Piano Schlieffen (attacco alla Francia attraverso il neutrale Belgio) gli era stato chiaramente illustrato dagli “alleati” durante le grandi manovre tedesche del 1913. Proprio per questo, cioè per quel piano di guerra contro l'Austria, qualcuno sospetta che la sua morte non sia stata naturale, come si suol dire.
Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, ricoprì la carica di Ministro degli Esteri negli stessi anni in cui Pollio era Capo di Stato Maggiore, ed entrambi uscirono vittoriosi dalla guerra italo-turca del 1911-1912.
San Giuliano si dimostrò abilissimo negoziatore durante le due guerre balcaniche, e dopo l'inizio della terza, quella del 1914, imboccò la strada della neutralità, come sappiamo, ma pochi giorni dopo iniziò trattative segrete con Francia e Inghilterra (sempre con il consenso del Re, è necessario ricordare, che ai sensi dell'articolo 3 dello Statuto albertino era l'unico titolare della politica estera).
Alla luce di questi dati possiamo concludere che l'Italia si sarebbe comunque schierata con Francia e Inghilterra nel 1915, ma sicuramente sulla base di accordi molto meglio e con precisione formulati; e la guerra sull'Isonzo avrebbe preso un'altra piega, perché Pollio era considerato più brillante e aggiornato di Cadorna, che stava per andare in quiescenza quando, nel luglio del 1914, fu chiamato a succedergli.

Cadorna

Cadorna

Si può anche ammettere che con Pollio al comando si sarebbe comunque creata quella tragica situazione di stallo sull'Isonzo (la guerra si era impantanata nelle trincee su tutti i fronti), ma le “spallate” sarebbero state, verosimilmente, meno di undici, e il numero delle vittime sensibilmente inferiore. E forse, chissà, a Caporetto gli austro-tedeschi non avrebbero sfondato...!
D'altra parte la “scheda” di Cadorna, che fece di Udine la capitale della sua dittatura militare, è impressionante: uomini in armi 5.200.000; morti 650.000; feriti o mutilati 1.500.000; undici sanguinosissime “spallate” sull'Isonzo; militari inquisiti dal Tribunale militare 340.000 (pari al 6,53 % degli uomini in armi); soldati decimati per punizione in un numero imprecisato, comunque alto; civili deportati dalle zone di guerra (Friuli e Veneto) 70.000.
Infine uno sguardo al Re, il regista di quella tragedia: è probabile che se al suo posto ci fosse stato suo padre, o un altro Savoia, con un altro carattere, le mosse dell'Italia durante i dieci mesi della “neutralità” sarebbero state diverse da come noi le conosciamo nell'immutabilità del racconto storico.
Dobbiamo ammettere che non fummo fortunati con quegli uomini in quei ruoli in quel tragico momento.

Le disgrazie del Friuli

“Quel Friuli ridotto alla fame nera prima ancora di veder la tragedia”

grandeguerra_archivio_it_1136_file_img_popupIl 28 luglio 1914, assieme alle altre terre dell'Impero di Francesco Giuseppe, entrò in guerra il Friuli austriaco. Si trattava delle terre dell'antica Patria del Friuli che, per effetto della sciagurata guerra di Venezia contro la Lega di Cambrai, del 1508/1516, vennero a trovarsi a est del torrente Judrio, cioè in pratica della contea di Gorizia e Gradisca e della terra di Monfalcone. Ciò significò che molti gruppi parentali friulani si trovarono divisi: i neutrali a ovest del corso d'acqua, poniamo a San Giovanni al Natisone e dintorni, e i belligeranti a est, per esempio a Medea o a Cormôns! latrincea11I primi potevano permettersi di stare a guardare, i secondi dovevano accorrere in armi per punire la Serbia.
Ma la guerra colpì immediatamente, in senso economico, anche il Friuli ex Veneto, cioè la Provincia di Udine, perché i nostri emigranti stagionali erano stati espulsi dalle fabbriche di Austria e Germania, senza il pagamento del dovuto, e dopo il 3 d'agosto anche maltrattati perché l'Italia si era dichiarata neutrale.
Per dipingere un quadro realistico, immaginiamo una massa di circa ottantamila disoccupati, metà dei quali in situazione di grave disagio, leggasi “fame”, che andarono a bussare alle porte dei nostri Comuni per ottenere un sussidio, e, soprattutto, un lavoro.
Quasi anticipando la cura di Keynes per la grande depressione americana (scavar buche e farle riempire a spese del governo) i Comuni chiesero allora prestiti allo Stato per avviare o completare lavori pubblici, come puntualmente riferirono i cronisti e i corrispondenti del quotidiano “La Patria del Friuli”.
Il Comune di Spilimbergo, ad esempio, a metà ottobre chiese un prestito di trentamila lire per costruire una strada da Gaio a Lestans, per accorciare la Spilimbergo-Maniago e per rendere più praticabili le altre.

Manifesto propagandistico italiano. La guerra in casa 1914-1918. Soldati e popolazioni del Friuli Austriaco nella Grande Guerra

Manifesto propagandistico italiano. La guerra in casa 1914-1918. Soldati e popolazioni del Friuli Austriaco nella Grande Guerra

Altrettanto fecero i Comuni di Forgaria, Tramonti di Sotto e Resiutta.
Ma in qualche caso, dove la pressione era più forte, potevano scoppiare incidenti di rilevante entità.
Ecco quanto accadde a Buja, dove circa duemila erano gli emigranti rientrati anzitempo (su una popolazione di diecimilacinquecento persone contate nel 1911).
Il Comune decise di chiedere un mutuo per lavori sulle strade, e deliberò la distribuzione di minestre e pane ai più bisognosi: centocinquanta minestre al giorno, più mezzo chilo di pane agli adulti e un quarto ai ragazzi, ma da un “censimento” risultava che i bisognosi di sostentamento erano più di mille!
Il Comune nel frattempo non riusciva a ottenere il mutuo e non era in grado di avviare un numero di cantieri sufficienti per dare lavoro a una parte significativa dei disperati, alla testa dei quali si mise un venticinquenne, tale Guido Pittini.
Formata una commissione di cinque disoccupati per tenere i contatti con il Comune, verso la metà di ottobre il Pittini organizzò una manifestazione di massa davanti a Municipio per spingere la giunta comunale a più rapidi ed efficaci interventi.
La manifestazione, sulla piazza di Santa Stefano, iniziò in tono pacifico, ma poi il capopopolo usò parole roventi, che si trasformarono in vere violenze contro il maresciallo dei Carabinieri e il Segretario comunale. Alla fine una sassaiola mise in serio pericolo l'incolumità fisica delle persone e alla forza pubblica venne dato l'ordine di sparare in alto per disperdere la folla.
Tutto si concluse, il 15 ottobre, con l’arresto del Pittini e di altri 11 facinorosi, ma la tensione continuò per diversi giorni, con proteste che assunsero forme e modalità diverse.
Una famiglia, ad esempio, abbandonò i suoi cinque figlioletti in municipio, dicendo che non era in grado di sfamarli. I bambini, fra essi un epilettico e un lattante, furono nutriti e accuditi da donne di buon cuore, e dopo qualche ora i genitori tornarono a riprenderli, non senza minacciare di ripetere il gesto in caso di necessità.
In seguito a questi fatti, la giunta comunale si dimise, ma poi, fatta eccezione per un assessore, accettò di continuare nell'amministrazione. Era, questa, una condizione sociale diffusa nell'autunno friulano di cent'anni fa.

Quando l'Italia era rigorosamente neutralista

Dopo la proclamazione della neutralità, avvenuta com'è noto il 3 agosto 1914, il governo italiano volle mostrarsi rigorosamente neutralista mentre già segretamente trattava, oggi lo sappiamo, con le potenze dell'Intesa, Francia, Gran Bretagna e Russia.
In agosto, settembre e mesi seguenti, quindi, le forze dell'ordine furono chiamate a reprimere ogni manifestazione interventista, come quella organizzata a Udine ai primi di ottobre, molto ben descritta da “La Patria del Friuli” del giorno 5 di quel mese.
Leggiamo, sotto il titolo: “Le manifestazioni di ieri sera”:
Alcuni giovani, in preponderanza studenti, avevano preparato per iersera una innocua manifestazione a base di cartellini che volevano lanciare dal loggione del Teatro Sociale [così allora si chiamava il “Puccini” in Via dei Teatri, oggi Stringher]; ma poi, forse per non disturbare lo spettacolo delle operette, passarono al Minerva [che stava di fronte al Sociale]. E lì, sul finire dello spettacolo, quando l'attore tripolino si presentò sventolando la bandiera tricolore, scoppiò da tutto il pubblico, che assiepava la sala, una calorosa prolungata ovazione. E fu chiesta la marcia reale, che l'orchestra si affrettò ad eseguire, fra applausi interminabili che si rinnovarono più forti dopo un fischio solitario, partito dal fondo della galleria. E furono lanciati i cartellini contenenti vibrate parole d'occasione.
Fu notato il pronto intervento della forza pubblica, che sequestrò quanti più cartellini ha potuto, e che all'uscita dal teatro fermò cinque o sei giovanotti che furono poco dopo rilasciati”.
Dopo un asterisco, la cronaca così prosegue:
Un altro … arresto fu praticato nello spanditoio pubblico [vespasiano] di Piazza Vittorio Emanuele. Vi era entrato un giovane. Poco dopo capitò un agente della Pubblica Sicurezza, il quale, vedendo appiccicati alle pareti due cartellini di quelli piovuti al Minerva, esclamò:
Ah. Ma è uno di quelli …
E afferrato il giovanotto per un braccio, lo tradusse in guardina, per Via della Posta, come un malfattore colto sul fatto.
Ah, loro vogliono la guerra, per farci marciare noi contro le palle e loro stare a casa! …
Così fu apostrofato il giovanotto: uno zelo degno (ci sembra) di peggiori, di ben peggiori cause.
Benché i carabinieri fossero in parte impegnati nello spegnimento dell'incendio, a S. Gottardo, fu notato un grande e pronto apparato di forze, che valse a … spegnere anche l'incendio della dimostrazione.
Gli obblighi della neutralità vigile deliberata dal nostro Governo impongono che le dimostrazioni sieno impedite in ogni modo pro o contro qualsiasi delle potenze belligeranti. E i rappresentanti del Governo si attengono rigidamente a questa interpretazione del dovere dei neutri”.
us13233la-grande-guerra-5-638L'incendio, del quale parla il giornale, era scoppiato, in quel pomeriggio, in una casa rustica con stalla a Beivars, in via del Bon n.12, località Buse dai Veris. Nell'opera di spegnimento si impegnarono dapprima un reparto dell'esercito e alcuni volonterosi, poi i vigili del fuoco e i carabinieri: quasi tutto andò distrutto, eccetto i muri perimetrali dell'edificio fino al secondo piano, ma furono tratte in salvo le giumente, capitale prezioso, mentre un maiale si era salvato … da solo! Asfissiato dal fumo, invece, il pollame. Ma, ricorda “La Patria”, il signor Paolo Ballico, proprietario dell'immobile andato in fiamme, era assicurato.
Nei teatri del centro, dunque, si incitava alla guerra, mentre nella periferia contadina di Udine si viveva nella quotidiana precarietà rurale.
La guerra piaceva anche al cronista che accusa il gendarme di eccesso di zelo repressivo, uno zelo degno di ben peggiori cause: ma quale causa è peggiore della guerra?
Il gendarme, citato addirittura nel dialogato, come nei romanzi, aveva ben capito che “incontro alle palle” del nemico sarebbe andato lui, non gli studentelli che gettavano cartellini dal loggione.
Il giornale, per rispetto della neutralità, non cita le parole scritte sui cartellini, ma non è difficile capire di che colore fossero.
Nei giorni e mesi seguenti furono frequenti le cronache di adunanze patriottiche e di comizi a favore dell'intervento contro l'Austria ma, scrive il 7 dicembre, queste manifestazioni dovrebbero tenersi anche nei paesi di campagna, non soltanto in città: l'interventismo, infatti, fu un movimento minoritario che veniva espresso dalle classi alte e dai ceti borghesi.

Corsera24maggio1915

Dal neutralismo all'interventismo

L'Italia e la guerra

La strada del neutralismo, imboccata da Antonino di San Giuliano il 3 agosto 1914, fu una scelta non soltanto ineccepibile in termini giuridici ma anche inevitabile in termini pratici.
Vediamo perché.
L'Italia evitò un autentico disastro perché la flotta inglese e quella francese avrebbero potuto bombardare le città costiere italiane da Genova a Napoli a Palermo, e infliggere gravi sconfitte alla flotta italiana in mare aperto.
Ma la scelta di San Giuliano fu importantissima anche per la Francia, che poté evitare di schierare circa trecentomila uomini, debitamente armati, per difendere il suo confine orientale, fra il Mediterraneo e la Svizzera: uomini che sarebbero stati sottratti al fronte franco-tedesco a nord-est.
San Giuliano salvò, quindi, con la sua scelta, le due “sorelle latine” da un vero disastro.
Nel frattempo (agosto e settembre 1914) risultò evidente a tutti che la guerra non sarebbe stata breve, e che decisivo sarebbe potuto essere l'intervento dell'Italia per una parte o per l'altra.
Data la situazione di stallo che si era creata, un filosofo cinese avrebbe consigliato di rimanere seduti sulla riva del fiume per veder passare milioni di morti in acque sempre più arrossate, per poi avanzare pretese territoriali a danno di popoli stremati, ma – stranamente, con la logica di oggi – il “neutralismo” statico si trasformò in “neutralismo attivo” o dinamico e poi in “interventismo”.
L'Austria, in verità, non temeva l'intervento dell'Italia, e i fatti le diedero poi ragione: evitata la catastrofe in Trentino nel 1916 per la Strafexpedition, l'Italia non riuscì a spostare significativamente il fronte verso est: chilometro più, chilometro meno, i soldati erano sempre là, a mordere invano il ciglione carsico.
La Francia, al contrario, era molto preoccupata per un possibile attacco dal Piemonte e dalla Liguria, e così si spiega la sua generosità nel promettere lauti compensi territoriali, in caso di vittoria, se l'Italia si fosse schierata a fianco dell'Intesa, e la sua rapidità nel finanziare (segretamente) il “Popolo d'Italia” di Benito Mussolini, da poco espulso dal Partito Socialista, che stava conducendo una battaglia per un “neutralismo attivo”.
I popoli non vogliono le guerre, che sono decise da minoranze determinate e spesso occulte, ma devono pagarne duramente le conseguenze.
avanti_prima_guerra_mondialeRestringendo il nostro sguardo al Friuli, è certo che la guerra non la volevano i contadini, gli emigranti, i socialisti, i cattolici. A favore di un possibile intervento si schierarono, soltanto i liberali, i massoni, i garibaldini (Enea Ellero, ad esempio, onorato proprio in quei giorni a Pordenone), cioè un'esigua minoranza, che però era capace di manovrare mezzi finanziari e di comunicazione, qui come nel resto d'Italia.
Rileggendo i giornali di quei giorni è davvero curioso vedere che accanto alle notizie sulla “barbarie tedesca” (la distruzione della cattedrale di Reims, ad esempio) e sulle conseguenze sociali della guerra (i tumulti di Buja per la disoccupazione e la fame), ci siano espliciti inviti all'interventismo: era tanto difficile immaginare le conseguenze dell'intervento in Friuli e in Italia?
Il 18 ottobre si riunì al Gemona il Congresso della Società Storica Friulana e le cronache riferiscono i soliti atti (saluti, relazioni, programmi, visite ai monumenti), ma anche gli interventi di due parlamentari.
Il senatore di Prampero, vecchio patriota, si rallegrò di essere ancora in vita “quando più vive sono le speranze, quando spunta già la sicurezza che vedremo realizzarsi il nostro lungo sogno del compimento agognato della Patria nostra” (leggasi conquista di Trento e Trieste).
Il deputato, onorevole Ancona, si augurò che “i giovani seguano la strada indicata dall'illustre uomo, poiché l'Italia ha bisogno che i suoi figli ...”.
Non vi sembra che già a metà ottobre del 1914 il neutralismo avesse preso la strada dell'interventismo, da realizzarsi con la quarta guerra di indipendenza?
L'autore de “La guerra e il Friuli”, Giuseppe Del Bianco, avrebbe scritto poi che ai piedi della rocca di Osoppo, cioè a Gemona, “suonò la diana dell'interventismo friulano”.

Battisti e Mussolini interventisti

Una terribile guerra che prometteva pace duratura

Cesare Battisti

Cesare Battisti

Perché l'Italia non rimase alla finestra a guardare le potenze europee che si stavano dissanguando (anche economicamente) a partire dai primi di agosto del 1914 ?
Le ragioni furono più di una.
C'erano minoranze intellettuali e nazionaliste che volevano portare a compimento lo Stato nazionale con la quarta guerra di indipendenza (non con trattative diplomatiche !), e la loro predicazione trovava “audience” anche perché si stava diffondendo la paura per lo strapotere della Germania, che aveva posto la Francia in gravi difficoltà. Se avesse vinto la guerra, sarebbe stata egemone in Europa.
C'erano poi gli industriali che traevano profitto dalle commesse belliche (per tessuti e altri prodotti). Si venne così a formare un clima interventista a favore dell'Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) sopra la testa di una stragrande maggioranza neutralista.
E allora, visto che non eravamo in regime di dittatura, è lecito domandarsi come mai l'Italia entro in guerra il 24 maggio 1915.
Le idee politiche per essere diffuse e credibili, hanno bisogno di uomini carismatici, e nell'autunno del 1914 sono due quelli che si stagliano su tutti: Cesare Battisti e Benito Mussolini, entrambi socialisti in quel tempo.
Battisti, trentino di nazionalità, austriaco di cittadinanza e deputato al Parlamento di Vienna, entra in Italia l'11 agosto e inizia quasi subito una campagna interventista nelle principali città.
A Udine venne il 29 ottobre 1914 e parlò nell'affollatissimo Teatro Minerva.
“Ora o mai” - scrive “La Patria del Friuli” del giorno 30 – è il grido che prorompe dal profondo dell'animo suo: l'Italia non avrà più l'occasione di rivalersi di un sacrosanto diritto”: quello, è bene spiegare, di conquistare le terre “irredente”.
Perché l'Italia doveva intervenire nella guerra secondo Battisti?
“Per la difesa della libertà dei suoi figli irredenti che (…) sono dal governo feudale degli Asburgo compressi in una tremenda morsa, straziati nei loro più nobili sentimenti patriottici, flagellati nelle loro aspirazioni politiche, torturati persino nelle loro individualità (...)”.
E poi ancora perché? Per la giusta sistemazione nazionale; per la sua stessa (dell'Italia) prosperità economica; per la difesa nazionale (confine territoriale più sicuro e porti meglio difesi in Adriatico); per i martiri e gli eroi irredenti (morti nelle guerre di indipendenza).
“Infine per la federazione internazionale, che assicurerà all'Europa una pace durevole e segnerà nella storia il trionfo della civiltà sulla bruta prepotenza, e l'inizio d'un periodo di prosperità morale ed economica per tutti i popoli”.
In conclusione: bisognava fare una terribile guerra per creare le premesse di una duratura pace!
Oggi sappiamo com'è finita, ma anche quel giorno c'erano sufficienti ragioni per fischiare Battisti e abbandonare la sala. E invece?
“Un applauso scrosciante – annota il cronista – interminabile salutò la chiusa della conferenza, durata circa un'ora. Dal loggione piovono sulla platea fasci di bigliettini tricolori copianti pensieri e incitamenti di Oberdan, di Mazzini e di Carducci. Sul palcoscenico, spiegate ai due lati, notammo le bandiere dell'Associazione Trento e Trieste, di Gorizia irredenta, di Trieste, di Trento, della Dalmazia, della Società di Ginnastica, del Ricreatorio Carlo Facci, della Società Parrucchieri, della Dante Alighieri, degli ex Bersaglieri e della Forti e Liberi. Ai lati dell'oratore i membri del Comitato promotore”.
Mentre Battisti proseguiva nel suo giro d'Italia, passando per Venezia, il 18 ottobre apparve su “Avanti!” il primo editoriale interventista di Benito Mussolini.

Mussolini e D'Annunzio

Mussolini e D'Annunzio

Quali le ragioni di quel fondo?
Non è facile rispondere, ma probabilmente, a quelle già elencate in precedenza, si aggiunse la decisione dei partiti socialisti degli Stati belligeranti di non ostacolare lo sforzo bellico e di contribuirvi lealmente, e Mussolini, fino a quel momento ostinato neutralista, deve aver pensato che era meglio anticipare gli eventi.
Il Partito Socialista gli tolse subito la direzione del giornale, ma non poté metterlo a tacere. Il 14 novembre, infatti, il futuro Duce fece uscire il primo numero del “Il Popolo d'Italia”, che fu una delle forze trainanti del movimento interventista nei mesi successivi.
Da dove veniva il finanziamento di quel giornale? Con precisione non si sa, ma di certo da qualche “minoranza” ricca e interventista. Poi, questo è certo, ci fu il sostegno del governo francese, che aveva tutto da guadagnare da un'alleanza con l'Italia.

Prima della Grande guerra. Il settimanale “Ora o mai"

Nel tempo della neutralità, misurato dai dieci mesi che intercorrono fra la dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia (28 luglio 1914) e l'entrata in guerra dell'Italia (24 maggio 1915), l'irredentismo si trasformò in interventismo, e la neutrale Italia finì per partecipare alla straziante “inutile strage” che si concluse con il “suicidio dell'Europa”. Si trattò, comunque la si voglia vedere, di una decisione di minoranza pagata a carissimo prezzo da una maggioranza contraria alla guerra, ed è il caso di domandarsi come ciò sia potuto accadere.
Premesso che qualsiasi maggioranza è condotta e condizionata da una minoranza (da un leader o da un gruppo di potere), dobbiamo ricordare che nel “democratico” Regno dei Savoia votavano allora soltanto i maschi maggiorenni che avevano “censo”, diciamo ricchezza, di solito “beni al sole”, sicché anche la Camera dei Deputati era espressione di una minoranza ricca, per non parlare del Senato, che era di nomina regia.
I giornali, quindi, erano non soltanto finanziati dai gruppi di potere, ma anche indirizzati ai membri della minoranza che deteneva tutto il potere e poteva decidere anche per la maggioranza, nella fattispecie poteva costringerla ad entrare in guerra. Non era pertanto necessario convincere tutto il popolo per entrare in guerra: bastava persuadere la minoranza che governava con il consenso del Re.
Se sfogliamo il “Giornale di Udine” e “La Patria del Friuli”, i due quotidiani più letti nella Provincia di Udine, possiamo cogliere lo spostamento dal neutralismo all'interventismo, come ben si comprende comparando le pagine stampate in agosto con quelle dei mesi seguenti, in particolare con le cronache del Congresso della Società Storica Friulana a Gemona (18 ottobre 1914) e del comizio di Cesare Battisti nel Teatro Minerva (29 novembre 1914): spazio a tutta pagina per le tesi interventiste e non una nota critica anche alle tesi più assurde. Cesare Battisti, da esempio, disse che bisognava entrare in guerra, e naturalmente vincerla, anche per rafforzare la nostra economia!
I due giornali, nel loro piccolo, stavano comunque al passo con la stampa nazionale, anche se erano meno estremisti de “Il Popolo d'Italia” di Benito Mussolini, ma a Udine qualcuno pensò che bisognava essere decisi, ferocemente decisi ad abbandonare “la penna onorata” per imbracciare “la santa carabina”.
Erano idee e slogan che maturavano nell'ambiente del fuoruscitismo irredentista, fra esasperati profughi da Gorizia e da Trieste, che avevano addirittura istituito – scrive Del Bianco, l'Autore di un imprescindibile saggio sulla guerra in Friuli – un reparto di controspionaggio, che si serviva di squadre di giovani per dare la caccia agli spioni o ai presunti tali, ai quali era risrevata una solenne bastonatura (in un clima che oggi appare prefascista).
Orbene, proprio in quell'ambiente, per ventidue settimane comprese fra il 24 ottobre 1914 e il 20 marzo 1915, fu scritto e pubblicato “Ora o mai!”, che sotto la testata si autodefiniva “Giornale di tutti gli italiani” e citava la frase di Vittorio Emanuele II: “L'Italia è fatta, ma non compiuta”.
Il settimanale poté uscire grazie alla copertura finanziaria del conte Antonino di Prampero, e sotto la direzione di Romeo Battistig, coadiuvato dal goriziano Attilio Venezia.
L'Italia, secondo il giornale, doveva compiere il suo dovere, che non era soltanto quello di completare se stessa conquistando Trento e Trieste, ma anche quello di liberare i popoli oppressi. Come? Facendo guerra alla guerra, per distruggere per sempre il militarismo dissanguatore, che naturalmente era quello degli imperi centrali di Austria e Germania.
Nemici di “Ora o mai!”, da denunciare e denigrare, erano tutti coloro che si opponevano alla guerra, dai socialisti ai cattolici, dai neutralisti a coloro che speravano di ottenere le terre italiane dell'Impero austriaco con la diplomazia. Nemici erano persino i due quotidiani udinesi, troppo blandi nella loro italianità.
Quel foglio, che sbavava odio antiaustriaco, non era ben visto neanche dalla polizia di uno Stato che stava segretamente trattando l'entrata in guerra al fianco di Francia, Inghilterra e Russia.
Si trattava di un foglio molto meno noto e diffuso de “Il Popolo d'Italia” di Benito Mussolini e della celebre rivista “Lacerba” diretta da Giovanni Papini, che in ogni modo non incise sulle decisioni di quei mesi.
Le posizioni ideologiche e le azioni di “Ora o mai!” appaiono davvero inaccettabili a un secolo di distanza, ma è giusto riconoscere che il finanziatore e il direttore di quel settimanale non dissero “armiamoci e partite”.
Antonino di Prampero, ritratto in una foto d'archivio con i quattro figli maschi in divisa militare e la figlia nella candida veste delle crocerossine, perse in quella guerra Bruno e Bianca.
Romeo Battistig, lesto nel deporre la penna per abbracciare la carabina, morì sul ponte di Sagrado il 15 giugno 1915.