La fiamma, infine, si spense

Carlo Michelstaedter

Carlo Michelstaedter

“Apesbésthen”: io mi spensi.
Questo c'era scritto il 17 ottobre del 1910, 105 anni fa, sul frontespizio della tesi di laurea di Carlo Michelstaedter (Gorizia, 3 giugno 1887, 17 ottobre 1910). Furono le sue ultime parole, prima che un colpo di rivoltella alla tempia gli fracassasse il cranio a soli 23 anni.
Che triste sorte ebbe in serbo la famiglia di Alberto Michelstaedter, colto signorotto borghese di origine ebrea, direttore delle Assicurazioni Generali. Sì perché l'anno precedente, ad uccidersi fu anche il suo primogenito, Gino.
Difficile capire il baratro che si aprì davanti agli occhi di Carlo, brillante studente di filosofia e di matematica, mosso dall'acceso desiderio di misurarsi con l' “altrimenti” e l' “altrove”, facendo di sé stesso una sorta di metafisico irrequieto e impulsivo.
Un uomo senza pace, con l'esigenza della pittura, della poesia e del pensiero, in un'azione febbrile e senza posa.
Lui, che aveva escogitato un Mèkanema, una macchina volante per abbandonare il “peso” del mondo e giungere all'assoluto. Lui, in stallo come un falco tra cielo e terra, infine rovinato nel tempo. Lo stesso tempo che voleva contrarre, nell'urgente necessità di contenerlo tutto.
Ma contrariamente a quanto si è creduto, il suo non è stato un pensiero ascetico e individualista, bensì una visione non priva di contenuti di carattere politico che culminò in un potente richiamo alla dimensione comunitaria dell’agire umano. magrittedoppiosegretoR375_27apr09
105 anni fa, Michelstaedter scrisse La persuasione e la rettorica, un saggio folgorante. L’umano è rappresentato come un «peso» che «pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende». La sua è una situazione senza via d'uscita, perché desiderando scendere, sa che se viene lasciato, «in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga». In sostanza, «sempre lo tiene un’ugual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere». E se mai riuscisse a porre termine alla sua corsa e al suo desiderio, verrebbe meno la sua stessa natura: «Se in un punto gli fosse finita e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro – in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso».
La sua vita, dunque, e più in generale quella dell'uomo, è mancanza di vita. «Quando esso non mancasse più di niente, ma fosse finito, perfetto: possedesse sé stesso, esso avrebbe finito d’esistere». Il peso è impedimento a posseder la sua vita e non dipende più da altro che da sé stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può mai esser persuaso.
L'uomo, dunque, destinato all'insepressività, all'assenza di soddisfacimento tende a obiettivi sempre diversi ma sempre deludenti, costantemente dominato dalla «volontà»; dall’altro, un’esistenza che potrebbe invece rappresentare un vero punto d’arrivo, l’«esser persuaso», compiuto in qualcosa che lo rende gratificato e felice, porterebbe anche alla cessazione della vita stessa.
La filosofia dello studioso goriziano, così come il pensiero stesso di Baudelaire, Leopardi e tantissimi altri, senza volerlo assolve il male del progresso, quello che ci ha portato all'apatia, alla noia invalidante, poiché l'uomo si è sentito patologicamente inappagato ben prima del consumismo e della globalizzazione. E lo dimostrano secoli di letteratura e filosofia. Il vero problema dell'uomo, è l'uomo stesso, non ciò che crea a sua immagine e somiglianza.
Il punto d’arrivo dell’esperienza di ricerca della «persuasione» lo troviamo nella pagina conclusiva della sua tesi di laurea (dedicata alla madre amatissima), dove si evince l'urgenza di una contrazione del tempo ordinario:
«Solo, nel deserto egli [l’uomo nella via della persuasione] vive una vertiginosa vastità e profondità di vita. Mentre la φιλοψυχία [l’amore alla vita] accelera il tempo ansiosa sempre del futuro e muta un presente vuoto col prossimo, la stabilità dell’individuo preoccupa infinito tempo nell’attualità e arresta il tempo. Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri, – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente».
Nelle tematiche di Michelstaedter si intravedono influenze chiare:
Platone, il Vangelo, Petrarca, Leopardi, Tolstoj Scopenhauer e Ibsen.
Non sappiamo se prima del suo congedo, il filosofo avesse trovato quell'altrove che la ferrea logica matematica non riusciva, a suo avviso, ad avvicinare. Non sappiamo se si arrese nella sua spasmodica ricerca del significato dell'esistenza, del senso delle cose. O se invece lo trovò. Sappiamo però che il suo isolamento diventa pressoché totale, digiunava e dormiva per terra. Non parlava più con nessuno, e le sue ultime parole al padre furono solo per comunicargli che dopo la tesi «non avrebbe fatto il professore, ma che appena laureato sarebbe andato al mare», forse a Pirano, o a Grado.
Poi, dopo un diverbio con la madre (che poi morirà in campo di concentramento), impugnò la pistola lasciatagli dall'amico Rico Mreule e si tolse la vita, ponendo fine a quella sospensione tra la vita e la morte, perennemente in bilico tra il richiamo del piacere, le costrizioni della società e l’anelito a una forma superiore di esistenza. Facendo di sé stesso fiamma e giungendo, speriamo davvero, all’ultimo presente, eterno. O là dove tutto diviene senso e bellezza. Diviene pace.