La Cina rallenta, i mercati isterici “se la fanno sotto”: scatta il panic-sell

I recenti "mal di pancia"  del gigante asiatico, numeri alla mano, stanno preoccupando moltissimo le borse mondiali, addirittura più di quanto è successo dopo il collasso storico  della Lehmam Brothers, agli inizi di una crisi epocale. Lo dimostrano le vendite record generate nei giorni scorsi sui fondi azionari globali, secondo i dati resi noti da Bank of America Merrill Lynch, uno dei maggiori operatori finanziari mondiali: i deflussi sono stati pari a quasi 30 miliardi di dollari, di cui 19 in un solo e unico giorno (il 25  agosto).

Le vendite, non a caso, hanno colpito soprattutto i fondi azionari dei Paesi emergenti: dall'inizio dell'anno, secondo Bofa, l'azionario emergente ha perso oltre 48 miliardi di dollari. A fronte di una perdita dei titoli azionari (12,4 miliardi solo sui mercati Usa), hanno preso vigore i monetari, con sottoscrizioni per 22 miliardi.  La preoccupazione riguardante il rallentamento dell'economia cinese, in realtà risulta infondata e, quantomeno, sproporzionata: l'esecutivo di Pechino, infatti, sta tentando da anni di gestire questo fenomeno (il calo della crescita economia, ndr) passando da una economia ad alta crescita trainata dall'export, ad un modello a crescita più bassa e più sostenibile, trainato dai consumi interni.

Per assurdo, sembra che l'isterismo da vendita (Panic-sell) sia scattato dopo che la Banca Centrale cinese  ha deciso di svalutare lo youan per sostenere le esportazioni. Una decisione pragmatica, interpretata all'esterno come una dichiarazione di debolezza che ha spaventato i mercati. In pratica la cura ha terrorizzato il malato (immaginario) che è morto (o quasi) di paura, prima di scoprire di aver assunto un semplice placebo.

Miracoli (si fa per dire) della nuova finanza, quella basata sulle ansie e le paure degli investitori, resi ansiolitici e assuefatti da anni di liquidità immesse a piene mani sui mercati dalle banche centrali  e, novità recente, supportate dai contributi di governi sempre più appassionati di economia e meno di politica.