Istituzioni regionali mangiasoldi e inefficienti, Renzi riapre il dossier abolizione pensando alle “macroregioni”

Diciamolo chiaro, non è la prima volta che da un governo nazionale arrivano segnali di nervosismo nei confronti delle Regioni. Ma quelle lanciate da Matteo Renzi in queste settimane sono più che dei semplici attacchi finalizzati al mero taglio delle spese o come dice qualcuno a scaricare l'onere delle sue scelte nazionali in tema di "riduzione delle tasse" sulle periferie istituzionali, si tratta invece di un preludio al cambiamento profondo degli assetti territoriali del paese. Tutto questo il premier e segretario del Pd lo vuole fare con buona pace della sua vice Serracchiani che di una Regione e per di più autonoma è la governatrice. Insomma nella mente di Matteo Renzi, appoggiato in questo da una parte consistente del suo partito, si comincia a mettere in discussione l’assetto istituzionale dello Stato. Nulla di male se l'operazione venisse fatta tenendo in debita considerazione le realtà consolidate a livello territoriale, ma il timore invece che tutto avvenga con il macete anziché con il cacciavite. Insomma ora, dopo le province ad essere snaturate potrebbe toccare proprio alle Regioni. Costano un miliardo l’anno solo in stipendi e spese di rappresentanza, per mantenere in vita la macchina politica dice sostanzialmente Renzi con qualche ragione fornitagli dagli scandali corruttivi degli ultimi anni che hanno investito praticamente tutte le Regioni, ma anche i disastrosi conti economici di cui però anche i Governi nazionali sono stati gli compartefici in passato attraverso i continui tagli. E' vero, molte spendono male, soprattutto nella sanità ma facendo il classico di ogni erba un fascio Renzi ha l'obiettivo non dichiarato di azzerare il potere locale o quantomeno di limitare i soggetti con cui trattare. Il dossier di Palazzo Chigi, per ora, è appena abbozzato ma già chiarissimo, tanto che le dimissioni annunciate e congelate del presidente della Conferenza delle Regioni, Sergio Chiamparino, e l’ennesimo scontro sulla sanità hanno fatto salire il termometro della tensione. Dietro le quinte infatti, qualcosa di pesante si sta muovendo come dimostra il nervosismo di molti governatori. Dalla parte di Renzi c'è la consapevolezza. Riconosciuta da tutti che il regionalismo in generale, fatta quindi qualche eccezione, ha funzionato poco e male, alimentando sovrapposizioni e sprechi. Nella sanità, che è la voce di spesa più alta per le amministrazioni regionali, si sono create enormi differenze di spesa e di qualità e la realtà che le regioni più piccole sono quelle che spendono di più. Quindi ecco l'uovo di colombo che però non tiene conto delle specialità. Se la logica è di tipo manageriale e non politico si potrebbero effettivamente creare risparmi ed economie di scala in molti settori, magari accentrando e riunendo ospedali e Asl, ma si allontanerebbero sempre di più i cittadini dalle istituzioni. Ma sembra proprio che di questo problema non si voglia sentir parlare, poco importa se a furia di fare spallucce alla riduzione della platea degli elettori si finirà di avere percentuali di votanti molto al di sotto dell 50% degli aventi diritto, per Renzi & c evidentemente l'importante che ha votare siano pochi ma “buoni”. Il primo obiettivo quindi potrebbe essere quello di rivedere l’attuale mappa geografica, riducendo il numero delle Regioni da venti a 12. Il progetto non è una fantasia, in realtà è stato messo nero su bianco in un ordine del giorno del senatore Pd Raffaele Ranucci, approvato da Palazzo Madama un paio di settimane fa. Un documento accolto dal governo e che ha avuto l’effetto di un sasso gettato nello stagno. Ovviamente, la strada è lunga e piena di ostacoli: bisognerebbe cambiare l’articolo 131 della Costituzione, tema non all’ordine del giorno. Anche per questo si sta studiando il modo di ‘neutralizzare’ almeno in parte la riforma del titolo V, che aveva dato alle Regioni maggiori competenze, spingendosi sulla strada dei poteri sostitutivi. A farne le spese potrebbero essere non solo le amministrazioni più inefficienti, incapaci di spendere le risorse assegnate dall’Ue o dallo Stato centrale ma per logica conseguenza anche quelle più virtuose che verrebbero livellate al ribasso. O meglio asfaltate per usare un termine caro al premier. Un ritorno, insomma, al vecchio centralismo che è già in atto e per di più, dopo la riforma del Senato e l'italicum, con molte meno garanzie democratiche del passato. La norma che rafforza i poteri sostitutivi del governo già esiste: ora si sta cercando furbescamente di renderla operativa a piccoli passi, senza dare subito una spallata, ma strangolando economicamente le Regioni e rendendole così incapaci di gestire la cosa pubbloica, Poi arriverebbe il salvatore della patria che magari trasformando Palazzo Chigi in una sorta di ‘cabina di regia’ operi interventi per l'interesse nazionale o si occupi direttamente dei programmi finanziati con fondi Ue. Insomma una sorta di commissariamento preventivo, un progressivo svuotamento di competenze che avrebbe un solo naturale sbocco, l'annullamento delle Regioni così come le conosciamo per arrivare alle macroregioni tanto auspicate da qualcuno. Potrebbero essere anche il preludio di una sorta di rivoluzione in senso “federale” non federalista dello Stato italiano. Un progetto legittimo ma che temiamo finisca per massacrare le minoranze ma soprattutto per omologare anche le eccellenze regionali che pur esistono e che finisca per alzare nuovi muri e far risorgere pericolosi campanilismi.