In Friuli “la mafia non esiste”, ed invece ecco prove di inquietanti presenze

“In Friuli la mafia non esiste”, esiste solo nelle fantasie di giornalisti in cerca di scoop. Tante volte questo concetto l'ho sentito ripetere sulla mia pelle come un mantra, soprattutto quando, trattando inchieste delicate, dal teleriscaldamento dell'Ospedale di Udine sul quale sono emerse tante belle "cosette", alle “cantierate” autostradali o a quelle di natura “ambientale e lagunare”, cercavo conferme e informazioni per chiarire meglio gli indizi che portavano alla malavita organizzata, alle organizzazioni tentacolari che dal sud Italia, trinacria compresa, raggiungevano anche il profondo nord est del bel paese. Politici di primo e secondo piano, tecnici e funzionari  ma anche alcuni uomini dello Stato poco ci mancava mi dessero del visionario. Anche le minacce sotto forma di lettere anonime e perfino un proiettile graziosamente fattomi trovare nella mia macchina mi avevano convinto che, magari a mia insaputa, avevo toccato interessi grandi e pericolosi. Nonostante i miei articoli e le segnalazioni, nulla si è mosso allora dalle procure troppo impegnate evidentemente nel tran tran giornaliero per prestare attenzione a questioni delicate, rischiose e quanto mai faticose da seguire. Poi però le notizie e gli indizi si sono concretizzati in altre procure ed allora anche le minacce da me patite nel corso del tempo hanno preso una direzione precisa. Capisco solo oggi quanto del vero ci fosse in quanto dettomi a quattrocchi da un investigatore,   puoi stare tranquillo, mi disse,  non  diventerai reale obiettivo “fisico”, vogliono solo intimidire,  perché anche se "rompi", gli uomini d'onore hanno buoni auspici per bloccare le indagini alla fonte e comunque non hanno nessun interesse ad alzare il livello dell'attenzione della giustizia in un area tranquilla dove fanno i loro affari proprio perché, non c'è una riconosciuta e riconoscibile presenza mafiosa.  Qui si fanno gli affari non le sparatorie, perché solo così le difese del mondo economico e perfino di quello istituzionale rimangono basse. Come dire, tranquillo nessuno sparerà a te o ai tuoi familiari, non perché non dai fastidio, ma perché le indagini su aggressioni o peggio, farebbero elevare l'allarme ed è quello che loro non vogliono. Oggi arrivano le conferme che la mafia, o meglio le mafie, perché Ndrangheta e Camorra sono anche loro in affari, in Friuli ci sono da tempo ed hanno agito eccome e che qualche rischio da incosciente l'ho effettivamente sfiorato.

Ma tornando alla cronaca odierna, l'ultimo episodio di una presenza affaristico-mafiosa, è il sequestro di beni a Palmanova all'interno di una inchiesta sulla mafia da parte della guardia di Finanza del Comando Provinciale di Catania, in esecuzione di un provvedimento emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale etneo su richiesta della DDA. Le fiamme gialle salite anche nel profondo nord hanno sottoposto a sequestro il patrimonio, di circa 27 milioni di euro, illecitamente accumulato da Francesco Ivano Cerbo (54 anni), arrestato nell’aprile del 2014 e rinviato a giudizio per associazione a delinquere di stampo mafioso nell’ambito della nota indagine “Scarface” condotta dal Nucleo di Polizia Tributaria di Catania nei confronti del clan Mazzei (“Carcagnusi”). Francesco Ivano Cerbo, dicono le cronache siciliane, è il papà di William, battezzato dai cronisti proprio dopo il blitz Scarcafe il Tony Montana dei Carcagnusi per la sua fissazione con il mito del personaggio hollywoodiano interpretato da Al Pacino. Anche lui finì in manette in quella mega operazione che svelò il potere di infiltrazione dei Mazzei nella cosiddetta economia legale sopratutto del Nord. Ora i finanzieri hanno sequestrato il "tesoro" dei Cerbo. 27 milioni di euro è il valore del patrimonio oggetto del provvedimento emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Catania su richiesta della Dda. Secondo le ipotesi degli investigatori il Francesco Ivano Cerbo ha accumulato illecitamente beni e le quote societarie, che sarebbero "frutto" della sua appartenenza al sodalizio mafioso dei Mazzei.
Francesco Ivano Cerbo sarebbe in realtà il prestanome: a lui sarebbero stati intestati beni riconducibili alla cosca tra cui la nota discoteca “Boh” di Catania già entrata più volte agli onori della cronaca tanto che poco più di un anno fa, nella mattinata del priomo aprile 2014 i militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Catania, con l’ausilio di uomini dello Scico di Roma e di elicotteri della Sezione Aerea di Catania avevano compiuto un blitz molto suggestivo per le sue modalità, il tutto a conclusione di una complessa indagine antimafia, eseguendo misure cautelari nei confronti di appartenenti appunto al clan Mazzei-Carcagnusi. L’operazione traeva origine dalle attività svolte nell’ambito della indagine “Reset” che, nel novembre del 2013, aveva portato all’arresto di 24 componenti del clan Santapaola, cosiddetto “Gruppo della Stazione”. In quel contesto erano emersi specifici elementi relativi alla riconducibilità di alcune attività economiche, tra cui la nota discoteca catanese, alla famiglia mafiosa dei Mazzei. Le attività investigative, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia etnea, hanno consentito di definire i contorni dell’associazione mafiosa e i reati commessi dai suoi membri (intestazione fittizia di beni, bancarotta fraudolenta ed estorsione) nonché di risalire all’articolato reticolo di interessi economici e finanziari del clan. I finanzieri, anche attraverso il ricorso ad attività tecniche, hanno ricostruito la trama degli affari illeciti dell’organizzazione criminale, sia con riferimento ai reati più tipici e diffusi (ad esempio, il racket nei confronti degli imprenditori), sia con riguardo agli aspetti inerenti alla sua capacità di penetrazione nell’economia legale, una traxxia seguita fino ad oggi e fino al Nord. Le indagini sono state fruttuose dato che fin da subito la Procura della Repubblica di Catania aveva anche delegato al Nucleo di Polizia Tributaria di Catania lo svolgimento di mirate indagini patrimoniali nei confronti di Cerbo e dei suoi familiari; accertamenti volti anche a verificare la "coerenza" del patrimonio posseduto, il tenore di vita con i redditi dichiarati. Le indagini sarebbero state condotte anche attraverso l’utilizzo di sofisticati software per l'analisi parallela di tutte le informazioni disponibili nelle banche dati. Così sono stati individuati beni mobili e immobili che sarebbero stati accumulati illecitamente da Francesco Cerbo consentendo l'istanza di sequestro all'autorità giudiziaria. Dinnanzi a prove considerate molto precise la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale ha accolto la proposta formulata dalla Procura motivando il sequestro "da un lato, la forte sproporzione tra i redditi dichiarati ai fini fiscali e il valore dei beni acquisiti e, dall’altro, la pericolosità sociale delle persone indagate". L'ordinanza di oggi tiene conto delle decisioni del Tribunale del Riesame e della Cassazione in merito alle misure personali e reali che erano state adottate nei confronti di Cerbo già nello scorso aprile 2014.

Fabio Folisi