Il califfo morde ancora ed è pronto a inghiottire Palmyra

Lo Stato islamico starebbe per mettere le mani su Palmyra, gioiello archeologico nel cuore della Siria, sollevando il timore di un nuovo scempio che si consumerebbe nell’impotenza sempre più ingiustificabile del mondo. Secondo i resoconti che giungono dal terreno, poche centinaia di metri separano ormai questo sito patrimonio Unesco e i miliziani di al-Baghdadi, impegnati da giorni in un’offensiva su più fronti. L’avanzata dei jihadisti, coronata da successi non solo simbolici, punta a centrare più obiettivi simultaneamente. Il più importante è dimostrare a tutti, le grandi potenze come i simpatizzanti del califfo sparsi nel pianeta, che le perdite territoriali subite recentemente dal gruppo sono temporanee. La riconquista di Tikrit da parte dell’esercito iracheno e i successi dei curdi siriani sul versante opposto sono state sbandierate troppo frettolosamente da una coalizione che si sta dimostrando raccogliticcia oltre che incapace di aggredire seriamente un nemico tenace, motivato, militarmente abile e impegnato in una serrata azione di propaganda. Da tempo gli analisti segnalavano come lo Stato islamico, per bilanciare i punti a favore segnati dai suoi nemici, avrebbe rilanciato. Erano attese tanto mosse sul fronte interno, in Siria ed Iraq, quanto su quello esterno, cioè in tutti quei punti del globo in cui sono attivi gli alleati del califfato, vale a dire i gruppi islamisti che hanno giurato fedeltà ad al-Baghdadi nonché le cellule jihadiste e i lupi solitari presenti ovunque nel mondo. Una minaccia, quest’ultima, particolarmente insidiosa perché composta da una foltissima coorte di musulmani radicalizzati che, senza bisogno di direttive dalla leadership dell’ISIS, sono pronti a sferrare colpi mortali nei propri paesi di residenza per seminare il terrore e incrinare la volontà politica delle nazioni che hanno aderito alla mobilitazione globale contro il califfo. Nonostante il suo insuccesso, l’attacco di due settimane fa a Garland, nel Texas, a una kermesse anti-islamica da parte di due musulmani americani voleva dimostrare, e lo ha fatto, che nessun luogo è sicuro, nemmeno la fortezza a stelle e strisce. Questo successo dello Stato islamico sul fronte esterno si accompagna ad un rinnovato impegno su quello interno. In questi giorni il califfato si sta prodigando in una serie di manovre finalizzate non solo a smentire la narrativa di un suo indebolimento, ma a segnalare una drastica progressione strategica che mira a mettere in ginocchio l’arcinemico Assad a ovest e a rafforzare la penetrazione in territorio iracheno a est. Le cronache indicano chiaramente come questa tenaglia si stia stringendo. In Iraq si sta consumando lo smacco di chi si era illuso che la liberazione di Tikrit fosse il preludio di una svolta nel conflitto. Ieri i jihadisti hanno lanciato una sofisticata offensiva a Ramadi, capitale della provincia occidentale di Anbar, culminata con la conquista dei quartieri centrali della città, l’occupazione del palazzo del governo e il puntuale innalzamento della bandiera nera in cima all’edificio. La reazione dell’esercito iracheno e delle milizie che ne sostengono gli sforzi, cui si sono affiancati gli strike degli aerei della coalizione, potranno aver in parte fatto rientrare l’allarme, ma non hanno impedito allo Stato islamico di diramare su tutti i canali immagini e messaggi trionfanti incentrati proprio su quel drappo, simbolo evocativo di una potenza che nessuno può contrastare. La debacle di Ramadi rappresenta così un duro colpo per il primo ministro iracheno Abadi che, dopo essere rientrato in possesso di Tikrit, aveva dichiarato con goffa solennità che “il prossimo passo e la prossima battaglia sarà ad Anbar per liberarla completamente”. La verità, che peraltro è nota a tutti coloro che vogliano documentarsi, è che la provincia di Anbar, la più grande dell’Iraq, è sotto il pieno controllo dello Stato islamico, che da qui continuerà a umiliare lo stato iracheno e i suoi alleati. Il segnale più potente della rinnovata letalità del califfato giunge però dalla Siria, dove le milizie di al-Baghdadi hanno sferrato un insidioso e ben organizzato attacco. Le manovre sono cominciate il 6 maggio, si sono sviluppate in due direzioni e mirano esplicitamente ad espellere l’esercito nemico dalla zona orientale creando così le premesse per la conquista di nuovi capisaldi. La prima direzione dell’avanzata ruota intorno alla provincia di Deir ez-Zour, dove sono stati presi di mira numerosi centri abitati e postazioni militari. In passato, la strenua difesa di queste posizioni da parte del regime era tesa a dimostrare la sostenibilità della strategia “l’esercito in tutti gli angoli”, imperniata sulla presenza di presidi armati in tutto il paese al fine di garantire, in caso di trattative di pace, la rivendicazione della propria sovranità su tutto il territorio nazionale. La perdita del controllo su Deir ez-Zour rappresenterebbe dunque una sconfitta di evidente peso strategico. Non meno inquietanti per il presidente Assad sono però le notizie che giungono dal secondo fronte aperto dal califfo, simbolicamente imperniato su Palmyra. La rilevanza di questo territorio per il regime è fuori discussione. Il controllo di tale zona, che rappresenta storicamente la porta verso l’est, serviva ad ostacolare qualsiasi minaccia potesse originare da quella direzione. Proprio per questo sono presenti numerosi depositi di materiale bellico, un obiettivo succulento per al-Baghdadi. Idem per i campi di gas naturale e di petrolio di Shaer, che Assad non può permettersi di perdere in quanto rappresentano la principale fonte di approvvigionamento del suo esercito. Impossibile al momento fare un bilancio dei combattimenti. Fonti locali riferiscono che i jihadisti avrebbero preso il controllo della città di al-Amiriya, a due chilometri da Palmyra. Ingenti quantitativi di armi sarebbero finiti nelle loro mani. Missili Grad starebbero prendendo di mira l’aeroporto di Palmyra per impedire agli aerei di Assad di ostacolare i movimenti degli assalitori. Numerosi check-point del regime sarebbero stati espugnati. Scontri durissimi sarebbero in corso nelle periferie a nord, ovest ed est di Palmyra. Cecchini di cui non si conosce l’appartenenza starebbero sparando su qualunque cosa si muova: “non c’è alcun civile in giro per le strade di Palmyra”, riferisce un citizen journalist. Non sarebbero mancati inoltre i massacri. Secondo l’Osservatorio per i diritti umani in Siria, organismo basato in Gran Bretagna, i miliziani avrebbero ucciso numerosi dipendenti governativi e anche nove bambini. Ci vorrà del tempo prima che la nebbia della guerra si diradi e si possa chiarire chi stia prevalendo. Si può tuttavia affermare sin d’ora che l’offensiva dei jihadisti segnala un drastico mutamento di strategia. Se in passato questa zona della Sira era per lo più oggetto di attacchi mordi e fuggi, ora lo Stato islamico mira ad annetterla per farne la rampa di lancio di nuove offensive dirette a prendere il controllo anche del centro e dell’ovest del paese. Se questo nuovo sforzo di al-Baghdadi sarà coronato da successo, la conseguente, prevedibile distruzione del sito archeologico di Palmyra sarà l’ennesimo risultato dell’incapacità del mondo di risolvere il problema di una rivoluzione trasformatasi nel teatro di una barbarie senza precedenti.

Marco Orioles