FARE, FELICITÀ E FUTURO: LE TRE “F” PER I GIOVANI ITALIAN

Il fare, la felicità e il futuro sono le tre F da rimettere insieme e sulle quali puntano i giovani italiani almeno nei prossimi anni. Un obiettivo importante che deve fare i conti, però, con il fatto che siamo uno dei paesi che meno sono riusciti (finora) a costruire basi solide per un futuro da protagonisti dei giovani per la crescita del paese. Infatti, tuttele tappe di transizione allo stato adulto - dall’autonomia dai genitori fino alla formazione di una propria famiglia e alla nascita del primo figlio - sono più dilatate nel tempo per i giovani italiani rispetto ai coetanei europei. L’età mediana di uscita dalla famiglia di origine è attorno ai 30 anni nel nostro paese, mentre è inferiore ai 25 nei paesi scandinavi, in Francia, Germania e Regno Unito. In Italia meno del 12 percento dei giovani vive in una unione di coppia tra i 16 e i 29 anni, un valore che è la metà rispetto alla media europea (elaborazioni su dati Eurostat). Di conseguenza siamo diventati, assieme alla Spagna, il paese con più bassa fecondità realizzata prima dei 30 anni.
È questo il quadro che emerge dal Rapporto Giovani 2016 realizzato dall’Istituto Toniolo di Milano con il sostegno di Intesa Sanpaolo e della Fondazione Cariplo presentato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Il “Rapporto Giovani”, in questi anni, è diventata la principale rilevazione continua italiana sull’universo giovanile. La scelta della fascia d’età non risponde ad un mero criterio anagrafico, ma ha una sua coerenza generazionale - centrata sui Millennials - e rappresenta una ben definita fase di vita quella in cui si realizzano le prime scelte della transizione allo stato adulto.
Il Rapporto Giovani 2016 è il frutto di una nuova fase di ricerca e mappatura che è partita nell’autunno 2015 con un rinnovato campione di 9.000 giovani tra i 18 e i 32 anni. I temi chiave sono: lavoro, felicità, istituzioni, Europa e figure di riferimento.
Il quadro che emerge dalle analisi raccolte nel “Rapporto giovani 2016” riflette questa lettura di condizioni oggettive penalizzanti, frutto di quanto sinora non ha funzionato, da un lato, e voglia di esserci, di fare esperienze positive, di cogliere opportunità che dimostrino che un futuro diverso è possibile, dall’altro.
La combinazione di questi due elementi opposti emerge dalla forte critica e disillusione rispetto alla condizione attuale di un paese che offre molto meno di quanto i giovani pensano di poter dare, in contrapposizione con la grande voglia di dimostrare quanto davvero valgono.
Mentre in Italia 3 intervistati su 4 ritengono che nel proprio paese le opportunità offerte siano inferiori rispetto alla media degli altri paesi sviluppati, si scende a meno di 2 su 3 in Spagna, a meno di 1 su 5 in Francia e Gran Bretagna, e meno di 1 su 10 in Germania. Di conseguenza l’Italia è anche uno dei paesi in cui maggiore è la propensione ad andare all’estero per cogliere migliori opportunità di lavoro.
Riguardo alla possibilità di trovare un adeguato lavoro e realizzare i propri progetti di vita i giovani italiani sono diventati consapevoli negli ultimi anni soprattutto dell’importanza di tre aspetti: rispetto all’atteggiamento individuale è richiesta una maggiore disponibilità ad adattarsi; rispetto alla scuola è aumentato il riconoscimento dell’utilità di acquisire solide competenze al di là del titolo di studio; rispetto al mercato del lavoro è aumentata pragmaticamente l’attenzione al reddito (e alla sua continuità) prima ancora che alla realizzazione personale.
Il 55% degli intervistati considera infatti la capacità di adattarsi l’elemento più utile per trovare lavoro, seguito dalla solida formazione di competenze avanzate (20,1%) e solo al terzo posto il titolo di studio (15,1%), seguono altre voci che raccolgono il 9,8%.
Il 91% degli intervistati concorda (molto o abbastanza) nel ritenere il lavoro come uno strumento diretto a procurare reddito. Cruciale inoltre per affrontare il futuro (88%) e per costruirsi una vita familiare (87,5%). Un po’ più bassa la quota di chi lo considera soprattutto come modalità di autorealizzazione (85%)
Difficoltà e incertezze pesano sulla visione del futuro e sulla fiducia sociale. In particolare chi si trova nella condizione di Neet vede il futuro pieno di rischi e incognite nel 78% dei casi, contro il 72% chi di studia o lavora. Chi vede meno grigio il futuro è soprattutto chi ha un lavoro a tempo indeterminato: 65%.
Inoltre il 71% dei Neet ritiene che gran parte delle persone non sia degna di fiducia, contro il 66% di chi studia o lavora (si scende a 63,5% tra chi ha un lavoro a tempo indeterminato).
Questa percezione di difficoltà e incertezza spinge al ribasso i progetti di vita.
Il numero di figli idealmente desiderato supera mediamente i due, ma nel tempo si è ridotto sensibilmente il numero di figli che concretamente si pensa di realizzare. Tale valore scende poco sopra 1,5 figli, un dato che comunque è vicino alla media europea e sensibilmente superiore al valore di 1,35 effettivamente osservato in Italia nel 2015.
Sull’intenzione di avere un figlio nei prossimi tre anni le analisi condotte nel Rapporto confermano l’importanza della condizione occupazionale. Non avere un lavoro risulta, al netto di altri fattori, negativamente legato alla progettazione dell’arrivo di un figlio.
Tale risultato assume particolare rilievo nelle regioni meridionali, caratterizzate da maggiori intenzioni di avere un figlio, ma da minore possibilità di realizzare i desideri di fecondità. Conta inoltre non solo avere o meno un lavoro, ma anche la qualità del lavoro e la stabilità di reddito che offre. I risultati ottenuti mostrano come non solo i NEET ma anche i lavoratori instabili trovino rilevanti difficoltà nel completamente delle tappe per il raggiungimento dell’età adulta.
Il lavoro è sempre più considerato, materialmente e psicologicamente, un asse portante irrinunciabile attorno al quale poter costruire progettualmente la propria vita.
Oltre al lavoro, altro fattore cruciale per i giovani italiani è il sostegno strumentale, emotivo e di orientamento (non sempre efficace) della famiglia, a compensazione delle carenze degli strumenti di welfare, di orientamento formativo e di accompagnamento al lavoro.
I dati e le analisi del Rapporto giovani” mostrano come l’influenza dei genitori risulti nel complesso maggiore in Italia - più che in Francia, Spagna, Germania e Regno Unito – sia sul percorso di studio dei figli che sul lavoro e sulla carriera professionale.
Si accentua quindi il modello italiano di dipendenza economica e di protagonismo della famiglia sul percorso di transizione all’età adulta dei giovani. Con il rischio di ritardare l’assunzione di un ruolo di piena cittadinanza, responsabile, attiva e consapevole dei giovani italiani.
Le strategie di difesa dei giovani sono quindi state principalmente negli ultimi anni: il rinvio di scelte di piena realizzazione professionale e di vita, l’aumento di disponibilità all’adattamento a quanto il mercato offre, il maggior riferimento e appoggio alla famiglia di origine, la crescita dell’opzione estero.
Ma cresce anche la voglia di uscire dalla condizione difensiva, di non subire solo i cambiamenti ma cogliere anche le opportunità. A partire da una scuola che incoraggi ad essere protagonisti, non tanto e solo nel mercato del lavoro, ma ancor prima nella vita. È alta, in particolare, la consapevolezza che l’istruzione sia soprattutto formazione di Life skills, ovvero della capacità di stare con gli altri, di riflettere sul mondo che cambia, di aumentare conoscenze e abilità personali, prima ancora che a trovare lavoro in sé.
Ed è anche elevata la consapevolezza oltre ad una formazione di qualità servano anche esperienze concrete utili a migliorare la conoscenza della realtà in cui si vive e a migliorare la propria capacità di intervenire positivamente su di essa.
Il volontariato e il servizio civile sono considerate palestre importanti per migliorare allo stesso tempo il contesto sociale in cui si vive e arricchire competenze utili per la propria vita sociale e lavorativa.
Il piacere e il valore dello stare e del fare con gli altri è confermato anche dalla crescita della sharing economy in forte coerenza con le sensibilità delle nuove generazioni e la necessità di acceso a beni e servizi a bassi costi. La combinazione tra nuove tecnologie, costi accessibili e condivisione di esperienze, stanno aprendo opportunità inedite in ogni ambito, dal coworking, alla fruizione culturale, alle modalità di consumo.
I dati di un approfondimento ad hoc sull’Expo di Milano mostrano come questo evento sia stato colta come occasione per innovare e sperimentare servizi dal basso nella logica della condivisione. Ampia è stata anche la disponibilità di partecipazione con esperienze di volontariato. Segnali rilevanti nel mostrare come le nuove generazioni siano affamate di occasioni per mettersi in campo con le proprie idee e la propria energia positiva.
“Essere felici nella fase giovanile”, afferma Alessandro Rosina, tra i curatori della ricerca, “risulta sempre meno una condizione dell’essere spensierati e sempre più legata al fare, alla possibilità di mettersi alla prova con successo in un contesto che incoraggia ad essere attivi nel migliorare il proprio futuro. Lo conferma il fatto che alla domanda se ci si sente felici solo il 56,4% dei Neet risponde “Molto” o “Abbastanza” contro il 78,3% di chi ha un lavoro a tempo indeterminato. Un divario enorme che separa il peggio di ciò che l’Italia rischia di essere e il meglio di quello che può diventare con le nuove generazioni”.