Morire con l’anima in metastasi

Edgar Allan Poe

Edgar Allan Poe

180 anni fa, lo scrittore Edgar Allan Poe, in una lettera indirizzata a John Pendleton Kennedy, uno dei pochi suoi ammiratori, confessò: «Sono in uno stato depressivo spirituale mai fino a ora avvertito. Mi sforzo invano sotto questa malinconia e credetemi, quando Vi dico che malgrado il miglioramento della mia condizione mi vedo sempre miserabile. Consolatemi Voi che lo potete e abbiate di me pietà perché io soffro in questa depressione di spirito che se prolungata, mi rovinerà».
Vivere con la propria penna, è una dannazione di cui ignoriamo, o sottovalutiamo l'orrore.
Vivere incapaci di sopportare la lucidità, la forza della nostra ragione. Perché lo sguardo lucido vede, tutt'attorno, il vero così vero da essere fino a sé stesso. Spietato e senza ideale. Senza sogno. Senza oltre. Contorni e confini fin troppo nitidi da diventare abbaglio crudele. Anche vivere così è una condanna di cui sottovalutiamo la tragedia. Edgar Allan Poe viveva così. Combattendo la sua lucidità fino allo stremo, anche a costo di sopprimere sé stesso. Beveva senza posa, beveva l'impossibile cercando sempre lo stordimento, l'annebbiamento, la morbidezza tenue, l'ovatta del mondo attorno. Beveva per nevrastenia e per le vertigini dell'infinito.
La lettera che scrisse 180 anni fa, è il presagio della sua fine, che fu miserabile quanto la vita stupefacente. Fu misteriosa quanto il male assoluto che, albergando in lui, lo dilaniava giorno dopo giorno.
Poe non è stato uno scrittore horror, è stato uno scrittore turbato, dotato di una coscienza ipertrofica fuori dal comune, di quelle che possono portare ad essere in confidenza con quel male che si annida tra le pieghe del nostro inconscio. Di quelle coscienze che, in parole povere, svelano l'animo dell'uomo nella sua interezza, come ben ci ha insegnato Dostoievskij in “Memorie dal sottosuolo”. Confusione, rottura degli argini invisibili che pervadono di oscurità la sostanza dell'uomo. I personaggi di Poe, infatti, sempre in balia di tremori, presagi, visioni, deliri, oscure malattie, altro non sono che Poe, impegnato in una battaglia narrativa e di vita dove, alla fine, la coscienza appare come vera malattia, un cancro che manda l'anima in metastasi.
«Vi sono destini fatali; - scrisse Poe - esistono nella letteratura di ogni paese uomini che recano la parola disdetta vergata in caratteri arcani nelle pieghe sinuose della fronte. Dobbiamo credere in una Provvidenza diabolica che prepari il male sin dalla culla e getti con premeditazione nature spirituali e angeliche in un ambiente nemico, come un tempo si gettavano i martiri nel circo?»
Ma nel suo mondo, come scrisse Pietro Citati, “tutto contenuto tra le strettissime pareti del suo cranio, dove persino gli alberi e la luce sono proiezioni dell'io, non esistevano dei, non c'era nessuna provvidenza diabolica, non c'era nessuna disdetta. L'unico Dio era lui, che aveva inventato dal nulla i suoi dei tenebrosi, aveva creato il Destino e la Disdetta.
E il destino che si creò, il suo congedo dal mondo è la conferma di questa natura.
E come in una danza macabra, ci sembra di rivedere tutti i suoi personaggi saltellare sulla banchina del porto di Baltimora, mentre l'ambulanza accompagna il corpo dello scrittore quarantenne che, dopo uno stato di delirium tremens, morirà all'ospedale.
La sua morte, come abbiamo detto fu un mistero, come un mistero resta la lucidità della sua narrativa, icastica e che, al pari di Dostoievskij, è capace di analisi che vanno oltre la narrazione della storia, ma diventano alta filosofia.
Il 3 ottobre 1849 lo scrittore fu ritrovato delirante nelle strade di Baltimora, «in grande difficoltà – dissero i testimoni - e bisognoso di immediata assistenza». A trovarlo fu un certo Joseph W. Walker. Fu portato all'ospedale Washington College, dove morì domenica 7, alle cinque del mattino. Poe non rimase mai lucido, ironia della sorte, per spiegare come si fosse trovato in tali gravi condizioni, né come mai indossasse vestiti che non erano i propri. Si dice che Poe abbia ripetutamente invocato il nome "Reynolds" durante la notte precedente alla sua morte, benché non sia chiaro a chi si riferisse. Alcune fonti affermano che le ultime parole di Poe furono «Signore aiuta la mia povera anima».
Niente autopsia. Come mai? Mistero. Tutti i referti medici, compreso il suo certificato di morte, scomparvero. I giornali dell'epoca attribuirono la morte a una "congestione del cervello" o "infiammazione cerebrale", un modo gentile per dire: è morto da ubriacone.
Era in viaggio per lavoro, ma una settimana prima il medico gli aveva sconsigliato la partenza.
Non aveva una bella cera, lo scrittore, ma a nulla valsero le preghiere di restare della sua compagna, Elmira Shelton. Dopo un'ultima visita dallo specialista, John Carter, all'uscita dell'ambulatorio scambiò per errore il suo bastone con quello del dottore.
L'arnese nascondeva una spada, e quando fu trovato il corpo, lo scrittore stringeva ancora l'impugnatura quasi fosse nell'atto di estrarre l'arma per difendersi da un'aggressione. Ma queste sono solo supposizioni campate in aria.

Il bastone del dottore

Il bastone del dottore

Quattro giorni prima, Poe si trovava alla Ryan’s Fourth Ward Polls, una taverna in cui si stavano svolgendo le votazioni per le elezioni municipali. Secondo alcune fonti, lo scrittore restò vittima di quella tipologia di frode elettorale ai tempi nota come “cooping”, in cui i malcapitati venivano sequestrati da delle gang di strada e obbligati, dopo la forzata assunzione di alcolici e droghe, a votare più volte per uno stesso candidato. Ma anche queste sono solo supposizioni. Inoltre, il medico curante di Poe, John Moran, pubblicò qualche tempo dopo il decesso le sue conclusioni, escludendo con forza che lo scrittore avesse bevuto pesantemente nelle settimane precedenti la morte. E in effetti, il delirium tremens che lo sovrastò all'ospedale, si può verificare in soggetti affetti da alcolismo cronico, a seguito di astinenza protratta per alcuni giorni. Anche il cardiologo R. Micheal Benitez sostenne la stessa tesi di Moran e nella sua relazione scrisse: «Non si può dire con certezza che la rabbia fu causa della sua morte dal momento in cui non ci fu un'autopsia, tuttavia questa è l'ipotesi da considerare più veritiera in quanto deliri, tremori, allucinazioni e stati confusionali, sintomi tipici della rabbia, non possono essere spiegati con l'abuso di alcool poiché Poe smise di assumere queste sostanze sei mesi prima del ricovero in ospedale».

La taverna dove votò

La taverna dove votò

Eccoci allora alla lettera iniziale, quello spedita a Kennedy dove, chiaramente, si legge la sua condanna a morte: una depressione prolungata fino all'annientamento.
I resti di Poe furono traslati da una sepoltura anonima vicina a quella del padre, ad una tomba monumentale realizzata 26 anni dopo la sua morte grazie ad una raccolta fondi. Durante il trasferimento della salma, qualcosa andò storto: la tomba cadde a terra, mandando in mille direzioni le spoglie dello scrittore.
I suoi resti furono rapidamente raccolti dai presenti che ne fecero macabri feticci da collezione.

La tomba mausoleo

La tomba mausoleo

Nemmeno nella tomba quella povera anima trovò la sua pace. Eppure, per un attimo negli scritti di Poe, ci era parso di intravedere la speranza. Perché nella stessa misura in cui raccontava l'inferno, egli lasciava intravedere una via di fuga, uno stato di grazia possibile.
Ma come ben sappiamo, Poe mentiva. Mentiva sempre per mania, mentiva per godimento, perché in fondo ad ogni menzogna avvertiva l'abisso.