Da Baghdad al Mediterraneo: il califfato verso lo scontro finale

Quando, tra un mese, ricorrerà il primo anniversario della sua proclamazione a califfo, Abu Bakr al-Baghdadi avrà ottimi motivi per festeggiare. Nonostante gli sforzi profusi da una coalizione che comprende una sessantina di stati, tra cui il colosso americano e le grandi potenze della regione, la formidabile creatura politica di Baghdadi, il califfato, non solo mantiene il controllo del territorio che ha fagocitato, ma è all’offensiva su tutti i fronti. La notizia di cui tutti parlano, la caduta della città siriana di Tadmor, meglio nota come Palmira, è sicuramente emblematica ma non dice tutto. Per la prima volta, lo Stato islamico colpisce l’Arabia Saudita in casa con un attentato nella moschea sciita di al-Qadeeh, nella parte orientale del paese. Si tratta di un’evidente intimidazione a un regime, quello della casa regnante dei Saud, che ha la duplice colpa di collaborare coi “crociati” nella guerra contro il califfo e di contendere a quest’ultimo la legittimità religiosa che egli rivendica per sé come nuovo “comandante dei credenti”. Colpendo la zona dell’Arabia Saudita in cui si concentra la presenza sciita, l’ISIS ricorre inoltre ad una delle sue armi predilette, quell’odio settario capace di seminare il disordine che è propizio ai disegni di dominio del califfato sunnita. Al di là di questa soddisfazione morale, la causa dei tagliagole ha segnato punti anche sulla carta geografica. Giusto una settimana fa, alla mappa del califfato si è aggiunta anche Ramadi, capoluogo della provincia irachena di Anbar, espugnata con un sofisticato attacco condotto coi metodi tipici della guerriglia islamista, attacchi kamikaze compresi. I miliziani avevano puntato da tempo il mirino su questa città, e la sua conquista consente di centrare almeno tre obiettivi strategici: consolidare il controllo della regione più grande dell’Iraq, dove si addensa la presenza sunnita da cui il califfato attinge le sue forze; consentire un raccordo con il territorio siriano amministrato da Baghdadi; stringere il cerchio su Baghdad, non lontana da Ramadi. Che tutti e tre gli obiettivi siano più vicini lo dimostrano gli altri exploit compiuti dall’ISIS in queste giornate di fuoco. Ieri è passata di mano anche l’ultima frontiera tra Iraq e Siria controllata dal regime di Assad: quella che collega at-Tanf e Al Waleed. Alla vista dei miliziani, i soldati siriani a guardia del confine avrebbero preferito tagliare la corda. Pare che anche il presidio iracheno dall’altra parte della frontiera si sia volatilizzato. Vengono meno così le ultime spoglie del trattato Sykes-Picot, che Francia e Gran Bretagna siglarono in gran segreto durante la prima guerra mondiale per disegnare la mappa del nuovo Medio Oriente mondato dall’ingombrante presenza del califfato ottomano. Un assetto durato un secolo ma che viene ora spazzato via dall’avvento di un nuovo califfato che tutto appare fuorché effimero. Conscio della minaccia che incombe sulla sua capitale, il governo iracheno, dopo la figuraccia di Ramadi, tenta ora di correre ai ripari e spedisce il proprio ministro della difesa, con l’imponente seguito dei suoi ufficiali più alti in grado, nella vicina base di Habaniya, con la prospettiva di organizzare da lì la controffensiva. Poiché tuttavia il governo ha fatto capire di volersi affidare anche alle milizie sciite armate dall’Iran, distintesi per la violenza perpetrata contro la popolazione sunnita da esse “liberata”, tutto lascia intendere che l’emergenza, anziché rientrare, si acuirà. Il settarismo rappresenta in fin dei conti la principale causa dell’attuale caos iracheno e del conseguente e massiccio reclutamento effettuato dallo Stato islamico tra le tribù sunnite, agli occhi delle quali il governo centrale, dominato dagli sciiti, rappresenta il principale nemico e il califfo la salvezza. Salvo miracoli, la situazione potrebbe dunque precipitare presto, come dimostrano anche gli ultimi sviluppi sull’altro fronte di questa guerra, quello siriano. Sin dal 13 maggio, quando i combattenti dell’ISIS si erano presentati alle porte di Palmira, era chiaro che la città sarebbe presto finita nelle loro mani. Così è stato, e ora nelle strade di questo luogo in cui giacciono i resti di un’antica civiltà dilaga la violenza. I soldati siriani che non sono riusciti a darsela a gambe sono alla mercé dei miliziani. Le prime teste sono già rotolate, e a queste si aggiungeranno presto quelle di chi non ha potuto far altro che cercare rifugio nelle abitazioni. Ma la loro sorte è già segnata, visto che i miliziani dell’ISIS li stanno cercando casa per casa e dagli altoparlanti dei minareti stanno intimando ai residenti di consegnare i fuggitivi. Quello dei soldati non è però l’unico sangue a scorrere. I conquistatori hanno provveduto a giustiziare i membri delle tribù sunnite che si erano rifiutati in passato di sottomettersi allo Stato islamico. Il bilancio è tragico: sarebbero quasi cinquecento i civili falciati, e a questi occorre aggiungere anche i 241 soldati lealisti periti. Il dramma è amplificato come sempre dalle immani sofferenze della popolazione. L’organizzazione dell’ONU che si occupa di profughi, l’UNHCR, si sta attrezzando come può per soccorrere gli undicimila sfollati. Tra essi ci sono migliaia di uomini, donne e bambini che avevano trovato rifugio a Palmira dopo essere fuggiti da altre parti del paese. Ma un altro dramma sta per consumarsi, ed è quello delle settantamila persone che sono rimaste in città e che saranno presto oggetto delle famigerate angherie dei conquistatori. Non si può dare torto a quanti, tra loro, denunciano l’ipocrisia dell’Occidente, che palpita per la sorte delle rovine romane ma non per quella delle persone in carne ed ossa su cui lo Stato islamico eserciterà a breve la sua nozione criminale della giustizia. Tutto questo sta avendo luogo mentre un uomo dall’altra parte del mondo continua a balbettare. Le dichiarazioni surreali di Obama, secondo cui la guerra non sarebbe ancora compromessa, hanno rafforzato la convinzione di quanti, a Washington, premono affinché gli Stati Uniti si assumano la responsabilità di affrontare di petto una situazione che hanno contribuito a creare con l’invasione del 2003. Mentre la Casa Bianca conferma la sua linea, quella del no ad ogni ipotesi di “boots on the ground”, a Capitol Hill sono in molti a pensarla diversamente. Nell’audizione tenutasi l’altro ieri, la commissione forze armate del Senato ha fatto capire che l’attuale posizione del paese è indifendibile. Particolarmente incisivo è stato il potente senatore John McCain, che ha aperto i lavori dichiarando che “il disastro di Ramadi dovrebbe spingerci a rivedere da cima a fondo la strategia degli Stati Uniti”. È d’altronde evidente che la politica di Obama, basata sull’abbinamento di bombardamenti dall’alto e offensiva sul terreno delegata alle forze locali, non ha prodotto i risultati attesi. A spiegarne il motivo è stato il generale John Kean, secondo cui “il 75% delle volte i velivoli rientrano alla base senza aver sganciato le proprie bombe perché non hanno inquadrato o identificato gli obiettivi”. Di qui la necessità, propugnata dal colonnello Derek Harvey, di quintuplicare il numero di consiglieri americani presenti in Iraq e di inquadrarli nei battaglioni impegnati nei combattimenti. Un presidio più consistente appare necessario anche alla luce di quanto sta avvenendo dall’altra parte del confine, se ha ancora un senso parlare di confine. Le ultime mosse dello Stato islamico in Siria preludono infatti ad un imminente scontro finale con il regime alawita. Con la metà del paese sotto il controllo del califfo, e la disponibilità di avamposti che minacciano le ultime roccaforti di Assad, lo scenario peggiore, quello di un califfato che da Baghdad si allunga fino al Mediterraneo, si fa sempre più concreto.

Marco Orioles