Covid-19: aumentano le famiglie in ristrettezza economica. L’analisi

Non solo i segmenti sociali tradizionalmente deboli, ma anche famiglie abituate a vivere bene con poco: l’impatto che l’emergenza sta determinando, almeno nella prima fase, è di natura trasversale e coinvolge, oltre ai ceti più deboli a rischio (o già in) povertà, anche quella vasta platea di lavoratori a reddito medio-basso, per cui l’assenza di reddito anche per un solo mese, può determinare una situazione di grave disagio. si apre così l'analisi  della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro su dati elaborati dall’Osservatorio Statistico di Categoria, rispetto ad una platea di oltre 22,4 milioni di occupati, nel mese di marzo 2020 quasi 9,5 milioni (pari al 42,2% del totale) sono stati impossibilitati a lavorare per via della sospensione delle attività economiche (Prospetto 1). Il 39% di questi lavoratori costretti a casa per le chiusure settoriali disposte dal governo o dalla carenza di domanda di servizi (ad esempio turistici) attualmente vive in una famiglia monoreddito. Si tratta di un totale di 3,7 milioni di persone. In particolare il 37% di questi lavoratori sono i “breadwinner” in una famiglia tradizionale con figli, il 36% è single, e il 12% è un monogenitore. Dati preoccupanti, soprattutto se si considera che ben il 47,7% dei lavoratori dipendenti dei settori “che hanno chiuso” guadagna meno di 1.250 euro mensili, e il 24,2% si trova addirittura sotto la soglia dei 1.000 euro. Se in alcune aree del Paese si parla già di emergenza sociale, è però vero che per larghe fette di famiglie, mono reddito o a basso reddito, la crisi, prodotta anche dal ritardo dell’erogazione delle misure a sostegno, sta impattando significativamente. Da un lato, va sottolineato come i provvedimenti adottati a tutela della salute pubblica abbiano finito per esporre a maggiore rischio di ritrovarsi “senza reddito” proprio i lavoratori meno qualificati e a più basso reddito, che avrebbero invece avuto bisogno di maggiori tutele. La chiusura dei comparti manifatturieri disposti dal blocco delle attività produttive ha penalizzato tanta parte di lavoro artigiano e operaio (si pensi all’edilizia, ma anche alle tante piccole imprese artigiane sparse sul territorio); la serrata del commercio, in aggiunta, ha interessato soprattutto commercianti e addetti alle vendite. Insomma, la base occupazionale che più è stata toccata dalle sospensioni è stata proprio quella a più basso reddito e qualificazione (si consideri che secondo l’ultimo dossier Istat sulla povertà, nel 2018 il 12,3% delle famiglie con capofamiglia operaio era in condizione di povertà assoluta, contro una media delle famiglie italiane del 7%). Di contro, chi ha potuto contare sulla continuità lavorativa tramite smart working (solo il 17,2% dei dipendenti) sono stati soprattutto i lavoratori della conoscenza, impiegati e quadri di aziende pubbliche e private, professioni a più alta qualificazione, che vantano titoli di studio e redditi più elevati. In tale ottica, l’emergenza COVID-19 sta avendo a livello occupazionale un vero e proprio effetto divaricante, amplificando il disagio sociale in quei segmenti socio-territoriali (i due livelli sono spesso coincidenti) che già si trovavano in condizioni economiche molto precarie. Dall’altro lato, la sospensione del reddito ha messo in grande difficoltà anche quella vasta platea di famiglie abituata a gestire con grande oculatezza il proprio bilancio mensile ma che non può contare su una riserva di risparmio sufficiente a garantire la copertura da eventuali rischi o emergenze come l’attuale. Secondo l’ultima rilevazione della Banca d’Italia sulle famiglie italiane (2018), una famiglia con capofamiglia operaio dispone in media di 2.815 euro di risparmi, contro gli 8.355 degli impiegati e 10.275 di un lavoratore autonomo. Una riserva del tutto insufficiente a fronte di una spesa media annua in consumi (tra beni durevoli e non) di circa 20.748 (ovvero 1.729 al mese). Senza contare mutui e rate da pagare: su 100 famiglie con capofamiglia dipendente, sempre secondo le analisi della Banca d’Italia il 14,1% deve pagare ogni mese il mutuo per la casa, il 12,3% si è indebitato per l’acquisto di beni di consumo, il 5,9% ha scoperto di conto corrente o carta di credito, mentre il 2,9% è indebitato nei confronti di parenti e amici.

COVID-19: bilanci familiari a rischio per 3,7 milioni di lavoratori
La sospensione, anche se temporanea, delle attività produttive per fronteggiare l’emergenza sanitaria da Covid-19 ha, fra le altre cose, causato per 3,7 milioni di lavoratori il venir meno dell’unica fonte di reddito familiare. Ad essere più colpite le coppie con figli (1.377 mila, 37%) e genitori “soli” (439 mila, 12%) con il rischio di non riuscire a fronteggiare le spese quotidiane. Un dato preoccupante se si considera che ben il 47,7% dei lavoratori dipendenti dei settori “che hanno chiuso” guadagnava meno di 1.250 euro mensili e il 24,2% si trova addirittura sotto la soglia dei mille euro. È quanto emerge dall’analisi della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro “COVID-19: aumentano le famiglie in ristrettezza economica”. Ad essere coinvolta, oltre ai ceti più deboli a rischio (o già in) povertà, è anche la vasta platea di lavoratori a reddito medio-basso, per la quale l’assenza di reddito anche per un solo mese può determinare una situazione di grave disagio. Tra i profili sociali in bilico ci sono, poi, i giovani che rischiano di scontare un notevole disagio: stipendi più bassi (oltre il 60% della popolazione 25-29 anni abitualmente non supera i 1.250 euro), dovuti alla minore anzianità lavorativa, vuol dire per gli under 30 anche una inferiore disponibilità di risparmio da poter utilizzare in questa fase emergenziale. Meno critica, in generale, potrebbe sembrare la situazione di altre popolazioni, come ad esempio quella delle donne, più largamente occupate nella Pubblica Amministrazione. Tuttavia, se osserviamo la sub-popolazione degli occupati costretti a casa dall’emergenza sanitaria, scopriamo che 2,5 milioni di donne (in particolare le addette nelle attività di vendita e le occupate part time) sono per 2/3 (65,8%) al di sotto di uno stipendio di 1.250 euro al mese contro il 36% dei maschi. Da un punto di vista territoriale è al Sud che si ha la maggiore concentrazione di disagio con una incidenza, tra i lavoratori dipendenti temporaneamente senza lavoro, dei monoreddito, pari al 49,6% (contro il 35,2% dei residenti del Centro e il 34,3% del Nord Italia). La situazione appare più critica tra gli autonomi: non solo la quota di quanti non lavorano per effetto delle chiusure da COVID-19 è più alta (55% contro il 38,2% dei dipendenti), ma tra questi ultimi è più elevata anche la percentuale di chi vive in famiglie monoreddito (sono il 42% contro il 38% dei dipendenti), e dove pertanto nei mesi in questione viene a mancare l’unica fonte di reddito familiare. “I provvedimenti adottati a tutela della salute pubblica hanno esposto a maggiore rischio proprio i lavoratori meno qualificati e a più basso reddito, che avrebbero invece avuto bisogno di più tutele. Si pensi alla chiusura dei comparti manifatturieri, al lavoro artigiano e operaio, all’edilizia o al commercio”, ha dichiarato la Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, Marina Calderone. “Al contrario chi ha potuto contare sulla continuità lavorativa tramite smart working sono stati soprattutto i lavoratori della conoscenza, impiegati e quadri di aziende pubbliche e private, professioni a più alta qualificazione, che vantano titoli di studio e redditi più elevati. In tale ottica, l’emergenza COVID-19 sta avendo a livello occupazionale un vero e proprio effetto divaricante, amplificando il disagio sociale in quei segmenti socio-territoriali che già si trovavano in condizioni economiche molto precarie e mettendo in grande difficoltà anche quella vasta platea di famiglie abituata a gestire con grande oculatezza il proprio bilancio mensile e che non può contare su una riserva di risparmio sufficiente a garantire la copertura da eventuali rischi o emergenze come l’attuale”, ha poi concluso.

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