Città industriale e portuale cinese di Tianjin devastata dalle esplosioni e dal fuoco. Decine i morti e centinaia i feriti

Tianjin è una città portuale nel nordest della Cina. Ieri un inferno di fuoco l'ha devastata dopo che una serie di esplosioni probabilmente iniziate con lo scoppio di un deposito di esplosivi hanno investito una vasta area di capannoni nell'intera zona industriale. Il bilancio provvisorio è drammatico, almeno 44 morti e 520 feriti ma in realtà il bilancio è quanto mai incerto viste le immagini che arrivano sui circuiti internazionali mostrano uno scenario apocalittico . Tutto è iniziato nella tarda serata di ieri mercoledì: i sopravvissuti parlano di esplosioni devastanti sentite da tutta la città e simili a un terremoto. La zona industriale è praticamente distrutta, tra le vittime ci sono anche 12 vigili del fuoco mentre dei feriti ben 66 sono stati ricoverate in ospedale in gravissime condizioni. Da Pechino sono stati inviati nella zona 214 soldati specializzati in disastri nucleari e chimici. Secondo la ricostruzione frammentaria di quanto avvenuto il sito industriale si è trasformato un’enorme palla di fuoco alta centinaia di metri, dopo le potenti deflagrazioni che pare siano partite da un deposito di esplosivi collocato forse su una nave. Le fiamme si sono rapidamente diffuse in tutta la zona, dove hanno preso fuoco numerosi container e magazzini. Dopo le esplosioni vetri e detriti sono stati lanciati a chilometri di distanza, mentre una nube di fumo nero densissimo ha ricoperto la città. I vetri delle finestre della città orientate verso il sito industriale sono andati in frantumi e molte persone sono rimaste ferite anche dentro le case.
Sul posto, hanno fatto sapere le autorità di Pechino sono state inviate squadre specializzate per il rischio che possano verificarsi nuove esplosioni nei depositi di materiale chimico con conseguenti nubi tossiche. Tanjin è una delle quattro municipalità della Repubblica Popolare Cinese, con quasi 13 milioni di abitanti. Negli ultimi anni, grazie alla presenza di un significativo bacino produttivo tecnologico, ha registrato una tra le maggiori crescite del pil su base annua tra le città cinesi, tanto che dal 2007 ospita la sessione estiva del World Economic Forum di Davos. L'altra faccia della medaglia di questa crescita galoppante è la scarsa attenzione alla sicurezza dei laboratori e degli stessi siti produttivi e di stoccaggio.

Fin qui la cronaca di un disastro, ma quanto accaduto a Tianjin fornisce l'occasione per analizzare, anche alla luce delle notizie relative alle svalutazioni multiple della moneta cinese che tanto nocumento stanno provocando nella finanza internazionale. Del resto gli stessi che oggi si dicono preoccupati ieri plaudivano ai record della Cina e al raggiungimento in poco tempo di ambiziosi obiettivi produttivi prefissati da Pechino. Ma c'è un primato – scomodo – che il Dragone non riesce a scrollarsi di dosso: è quello dello sfruttamento del lavoro che è in realtà alla base del “successo” dell'economia capital-comunista, quella nuova ideologia spuria che ha fuso il “peggio” di due linee di pensiero che teoricamente dovevano essere antagoniste e che invece il pragmatismo cinico cinese ha trasformato in una nuova metodologia di sistema economico. Le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli abitanti della Cina negli stabilimenti in genere proprietà di grosse multinazionali, oramai sempre di più a capitale cinese, sono a dir poco raccapriccianti. Ovviamente di questo il mondo occidentale non sembra preoccuparsi, impegnato solamente a sfruttare l'occasione di un manufatturiero a basso, bassissimo costo. Ogni giorno si agita lo spauracchio della concorrenza della Cina nei mercati mondiali ma poi in realtà si utilizza lo sfruttamento della forza lavoro. Qualcuno fino a poco tempo fa parlava di un grave attentato ai diritti umani generato in gran parte dal ricatto esercitato, a livello centrale e locale, dagli investitori stranieri, oggi la realtà è modificata, visto che gli enormi proventi fatti proprio dai cinesi gli ha consentito la scalata alle stesse multinazionali. Questo però non ha minimamente cambiato la caratteristica del mondo del lavoro cinese soprattutto sul piano dello sfruttamento e della sicurezza sui posti di lavoro. Si continua a puntare non sulla prevenzione, considerata un costo eccessivo, ma al massimo su “esemplari punizioni” quando avviene un disastro, punizioni che non colpiscono però i veri gangli del potere ma i burattini intermedi. Secondo calcoli per difetto sarebbero circa novanta milioni gli “schiavi cinesi”, in gran parte contadini, che si sono trasferiti dalle campagne alle industrie cittadine. Le loro paghe sono ridicole: un operaio che lavora cento ore settimanali, senza nessun giorno di riposo, guadagna al massimo 900 yuan, meno di 90 euro, una cifra in realtà insufficiente, anche in Cina, per sostenere una famiglia tanto da costringere all'immissione sul mercato del lavoro anche di giovanissimi. Far lavorare i minori è spesso una scelta obbligata per le famiglie cinesi, vista la povertà che esiste in molte zone della Cina ma, comunque, mandare i propri figli in fabbrica non è la decisione più crudele. In molti casi fiorisce un altro mercato del lavoro per le bambine, quello della prostituzione. Gli stessi lavoratori “regolari” per lo più non sono coperti da assicurazione sanitaria e non hanno alcun diritto a risarcimento in caso di incidenti sul lavoro. Insomma un quadro spaventoso che l'occidente degli affari non guarda o intravede in trasparenza attraverso la filigrana della abbondante carta moneta. In sostanza il mondo occidentale, che si dice preoccupato per l’avanzata cinese nei mercati internazionali, è spesso la causa determinante delle condizioni di lavoro imposte al lavoratore cinese del comparto industriale. Le multinazionali conoscono i numeri, i conti sul costo del lavoro, ma le grandi aziende americane ed europee sanno di pagare l'ora di lavoro un ventesimo e non si fanno scrupoli.
Gli Stati Uniti in particolare premevano affinché Pechino rivedesse la sua valuta. L'idea della finanza internazionale era quella di far adottare alla Cina un tasso di cambio flessibile, basato sul mercato in modo da rendere meno competitive le merci esportate dai cinesi e visto il pil in costante aumento la “regola” imposta dal mercato doveva essere quella che Pechino aumentasse sensibilmente il valore dello yuan. Ma i cinesi delle “regole” occidentali se ne fregano e percorrono una loro personale linea di finanza creativa e stanno quindi facendo spregiudicatamente esattamente l'opposto di quanto il gotha finanziario si aspettava, con il risultato che occorrerà piegarsi ai voleri di Pechino perchè l'ipotesi di nuovi dazi delle merci cinesi sempre più a basso costo non pare praticabile, perchè una crisi profonda dell Cina farebbe implodere l'intero sistema mondiale e i cinesi lo sanno .