BURUNDI, E’ MASSIMO STATO D’ALLERTA

Era stata data domenica 11 maggio la notizia che molti funzionari del governo burundese starebbero segretamente evacuando le loro famiglie. La risposta del portavoce del governo Willy Nyamitwe riguardo in particolare alla partenza della moglie è stata molto decisa: “Mia moglie, che non fa politica, può andare a stare dove vuole”.
Una risposta del genere, poco convincente, sembrerebbe conferma la situazione drammatica che si sta ancora vivendo in Burundi.
Uno dei tanti conflitti in corso e spesso trascurato – se non totalmente dimenticato – dalle cronache internazionali è la guerra civile che si sta consumando in questo piccolo stato africano subsahariano e che oramai va avanti da due anni dopo che, nel mese di aprile del 2015, il presidente Pierre Nkurunziza, un pastore protestante di etnia hutu all'epoca alla fine del suo secondo mandato, annunciò la volontà di ricandidarsi la terza volta. Da quel momento sono scoppiate numerose proteste da parte dell’opposizione politica e della società civile.
Inevitabile e molto dura la repressione che ha registrato gravi violazioni dei diritti umani, con uccisioni illegali, sparizioni forzate, torture e altri maltrattamenti e arresti arbitrari. La violenza contro donne e ragazze è quotidiana e i diritti alla libertà d’espressione e d’associazione completamente soffocati.
Il governo, da parte sua, parla di complotto organizzato da alcune forze occidentali. Prima della presentazione del rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC), il portavoce Nyamitwe ha apertamente dichiarato che questa istituzione “ha perso la sua obiettività e neutralità” e ha aggiunto che il rapporto “dirà le stesse cose dette in precedenza, soprattutto che gli Imbonerakure sono dei violentatori, che le forze di difesa e sicurezza uccidono, che ci sono sparizioni forzate, persone torturate, ecc. Ma non che i golpisti (un tentato colpo di stato risale a maggio dell’anno scorso) sono in Ruanda o in Belgio, che il Burundi è in pace e che la sicurezza regna su tutto il territorio”, e che le persone uccise erano responsabili di violenze ai danni delle popolazioni civili. Rincara il vice presidente del Burundi, Gaston Sindimwo, che assicura la fine della crisi e l’inizio della fase di ricostruzione.
Ma i dati sono dati e non possono essere ignorati.
Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sarebbero 410.000 i rifugiati e richiedenti asilo provenienti dal Burundi, una cifra destinata a salire.
Difficile sapere a quanto ammonta esattamente il numero di morti. L’organizzazione burundese dei diritti dell’uomo, Iteka, ha stabilito che almeno 507 sono le persone uccise – cifra superiore ai 240 stabiliti dall’ONU –, 991 le imprigionate e 2.203 gli arresti arbitrari.
Non è quindi un caso che a ottobre il governo del Burundi abbia deciso di ritirarsi dallo Statuto di Roma della Corte Criminale Internazionale e lo scorso febbraio ha iniziato le pratiche per la sua cancellazione come stato firmatario. Ha quindi sospeso ogni collaborazione con l’UNHRC e ha rifiutato ogni cooperazione con la Commissione d’inchiesta mandata dal Consiglio per i diritti umani. Le autorità hanno anche rinunciato a firmare con l’Unione Africana un documento che avrebbe permesso lo schieramento di militari esperti e osservatori umanitari per assistere il Burundi nel processo di pace.
Nkurunziza ha persino dichiarato, a gennaio, di voler rimanere al potere anche per il quarto mandato ed è intenzionato a riformare la costituzione in questo senso.
È chiaro che questa situazione non aiuta l’economia del paese che da diverse settimane è paralizzato dalla scarsità di carburante, costringendo il governo a introdurre, lo scorso 16 maggio, il razionamento. Le ripercussioni sono pesanti in un paese già agonizzante dopo anni di regime sottoposto a sanzioni. Il commercio paralizzato ha causato la crescita dei prezzi dei generi alimentari di circa un terzo, aumentando la prospettiva di un'ondata di emigrazione economica.
Il Franco burundese ha inoltre subito una svalutazione del 38% in quattro mesi e il tasso di cambio giornaliero più vicino alla realtà è quello dettato dal mercato nero. Nelle campagne è comparso lo spettro della fame.
Le reazioni a livello internazionali sono diverse. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva richiesto all’ONU un intervento militare immediato, ma quest’offensiva è stata bloccata dalla Cina – paese sempre più presente su un piano economico e commerciale – la quale riconosce il regime burundese come legittimo e unico interlocutore istituzionale, rafforzando così il regime sostenuto anche dalla Russia.

Danielle Maion