Analisi a “freddo”: L’elezione di Mattarella un vero capolavoro politico

Ora che la polvere si è posata si può tornare con più serenità all'elezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica, provando, nel rivedere quanto accaduto, a andare oltre il velo delle suggestioni e delle letture di parte.
Le versioni che vanno per la maggiore, nell'analisi proposta da molti commentatori e cronisti, sono sostanzialmente due: il capolavoro politico di Renzi e il trionfo eterno della Democrazia cristiana (col corollario dell'ininfluenza e della sconfitta della sinistra, di provenienza ex-comunista ma non solamente).
Si vuole qui mettere questi assunti alla prova dei fatti, o almeno della logica, non condividendoli e ritenendo che occorra guardare a quanto accaduto senza fermarsi alla superficie delle cose. E' un esercizio che si ritiene utile non per affermare un diverso punto di vista ma perché la "narrazione" sta prendendo il sopravvento sulle cose e il giornalismo politico pare meno in grado, oggi, di svolgere il suo compito - incapace come sembra di liberarsi del retroscena scritto sotto dettatura dei protagonisti e dal ruolo ricoperto dagli editori delle grandi testate nella politica e nell'amministrazione, sempre maggiore in misura inversamente proporzionale all'indebolimento dei corpi intermedi.
Un capolavoro politico
Vediamo, dunque, il capolavoro politico. Si vorrebbe, secondo questa versione, che il presidente del Consiglio abbia seguito una linea precisa sin dall'inizio tenendo nella manica l'asso già pensato di Mattarella, calato dopo aver confuso le acque con lo stillicidio di nomi che la stampa aveva riportato. Quei nomi hanno, invece, punteggiato un percorso partito dal tentativo di Renzi di sottrarsi agli unici due candidati in grado di arrivare al Quirinale: Giuliano Amato e Sergio Mattarella. Renzi probabilmente non ha mai pensato veramente di riuscire a imporre un "suo" candidato ma il suo obiettivo era arrivare almeno a una Presidenza meno "presente" nella vita quotidiana del parlamento e degli esecutivi di quella che aveva dovuto ricoprire Giorgio Napolitano, in particolare nel secondo mandato. Con ciò si voleva affermare l'uscita dall'emergenza e la ripresa del timone del paese da parte della politica. E' comprensibile come egli considerasse la sua leadership, simbolizzata nello slogan della rottamazione, la risposta che superava la necessità per il Quirinale di esercitare sempre al limite le prerogative della sua carica, per compensare la crisi della politica. Ora, per Renzi, è il tempo per una Presidenza diversa, possibilmente una Presidenza "debole".
Presidenze deboli o forti, tecnici o politici, autonomia o dipendenza
Cosa si intenda per "Presidenza debole" si capisce meglio guardando al perché Sergio Mattarella e Antonio Amato non costituissero agli occhi di Renzi la scelta preferibile. Molto semplicemente perché erano personalità troppo forti per il decisionismo e i tempi rapidi del capo del governo che, in maniera istintiva e caratteriale, avrebbe voluto una figura più "morbida". Diverse motivazioni sono state usate per velare questo fatto, la necessità di marcare un cambiamento, una figura lontana dalla politica che rappresentasse la società e la distanza dalle ideologie (e l'illusione della neutralità della tecnica), una donna (ché ormai è giunta l'ora di colmare questa lacuna), un presidente under sessanta (finalmente!). Tante formule utili a cercare una figura meno forte. Quest'obiettivo era, però, irraggiungibile, viste le posizioni dentro e fuori dal Pd. E Renzi, da leader politico di razza, è riuscito a capirlo in tempo, lavorando a trarre il maggior profitto possibile dalla situazione data, a ribaltare una mezza sconfitta in un'opportunità, dimostrando, in quest'occasione, realismo politico e lungimiranza.
Il non candidato di Renzi
All'inizio fu la diatriba tra Presidente tecnico o politico. Un tecnico aveva la caratteristica di essere forte presso l'opinione pubblica, in quanto cavalcava il generale discredito per i politici "di professione". Per Renzi era auspicabile soprattutto perché la minore o nulla esperienza politica e istituzionale vuol dire minor forza e autonomia.
Anche un tecnico, del resto, una volta entrato al Quirinale e indossato i panni del garante della Costituzione può scordarsi di chi ce lo ha portato. Renzi sembra avere un candidato preferito, un tecnico estremamente autorevole e a lui molto vicino, come il presidente emerito della Corte costituzionale, Ugo De Siervo. I giornali hanno riportato i tentativi di Renzi di incuneare il costituzionalista tra gli unici due nomi realmente "papabili". Ma erano probabilmente solo una mossa tattica, in quanto Renzi sapeva bene che difficilmente De Siervo sarebbe potuto diventare Presidente, proprio per la loro eccessiva vicinanza.
I loro percorsi si erano incrociati, infatti, sin dagli studi universitari, essendosi Renzi laureato in giurisprudenza a Firenze con una tesi su Giorgio La Pira, maestro del professor De Siervo. Ma sono i rapporti con i figli che complicano la vicenda. Lucia è stata prima Capo di gabinetto quando renzi era sindaco di Firenze, poi direttore Cultura, turismo e sport e responsabile ad interim dei Musei civici. L'altro figlio, Luigi, è stato nominato da Renzi nei collegi sindacali di diverse aziende pubbliche fiorentine, poi ha organizzato la campagna del camper alle prime primarie di Renzi del 2012, è diventato presidente della partecipata Publiacqua e, infine, ad di RaiCom, dove è ora, fedelissimo di Renzi a viale Mazzini. La candidatura di Di Siervo sarebbe stata la candidatura di quello che i giornali chiamano il "giglio magico". Perché allora promuoverla? Per avere un nome da sacrificare, probabilmente. Del resto, per quanto vicino a Renzi, l'illustre costituzionalista non è certo una personalità debole - anche se senza esperienza politica - e non sarebbe stato tenero nell'analizzare la qualità delle riforme, come le recenti dure critiche alla riforma del Titolo V e del Senato da lui formulate giungono a confermare. Possiamo quindi dire che Renzi ha affrontato quest'elezione presidenziale con due "non-candidati": un primo che non fosse Mattarella o Amato e un secondo, il cui nome è messo in campo ma in quanto pedina da sacrificare.
Il primo problema di Renzi: il Pd.
Il primo problema per Renzi sta in casa. Nel Partito democratico, dove le minoranze sono divise in modo insanabile ma gli equilibri non sono facili neanche nella maggioranza. Di fatto, esisteva un nucleo ampio e trasversale non disposto a far passare un candidato del segretario, con rappresentanti di peso della maggioranza che aveva appoggiato la scalata di Renzi al partito e al governo, risultando determinanti nella defenestrazione di Enrico Letta, ma che non erano disposti a rinunciare a mettere piombo nelle ali del segretario. I cattolici del Pd non facevano fronte con Renzi e così gli ex-bersaniani progressivamente avvicinatisi al premier e al governo, come i Giovani turchi. Poi c'erano le minoranze di sinistra, bersaniani e cuperliani che, pur con rapporti ai minimi termini, in questo caso erano compatti. Nessuno nel Pd, dunque, era disposto a dare carta bianca a Renzi, soprattutto dopo il fattaccio della norma "salva Berlusconi", infilata di soppiatto e all'insaputa di tutti, ministro competente compreso, nel testo attuativo della delega fiscale approvata in Consiglio dei ministri il 24 dicembre, Vigilia del Santo Natale. La disinvoltura istituzionale e il cinismo politico di Renzi convinse le componenti del Pd che l'elezione della Presidenza della Repubblica fosse l'unico campo nel quale i rapporti di forza consentissero un'azione concreta di interdizione.
Dopo il Napolitano-bis. La democrazia italiana alla prova
La debolezza intrinseca delle analisi sull'elezione presidenziale risiede, però, nel fare come se con l'elezione di Napolitano per il secondo mandato non fosse accaduto niente. Imprigionato dietro le ricostruzioni di comodo di quell'evento - su tutte il cecchinaggio di Prodi come farina del sacco dalemiano ma anche la mancata analisi del siluramento di Marini - il fronte dei commentatori si è limitato a prendere atto attraverso incisi della delicatezza della nuova elezione per poi scordarsene durante l'analisi dei fatti.
Invece, il macigno del Napolitano-bis era lì ed era chiaro a tutti che, questa volta, non si potevano consumare le rese dei conti interne al Pd nell'ambito dell'elezione presidenziale. I cattolici non avrebbero vendicato Marini, i renziani non avrebbero agito per silurare Bersani e indebolire Letta, le varie minoranze del Pd, come i pochi dalemiani superstiti, non avrebbero fatto pagare al candidato al Quirinale i pasticci combinati da Bersani durante la scelta del nome di Prodi, dopo il fallimento di Marini, i neo deputati provenienti dalle parlamentarie non avrebbero inseguito gli umori dei social network come foglie portate dal vento. Non sarebbe andata come l'altra volta: il Pd era alla prova. Tutto il Pd doveva dimostrare a se stesso e all'Italia di essere all'altezza del ruolo di primo partito del Parlamento. E, col Pd, era tutto il sistema istituzionale italiano a affrontare la prova, sotto lo sguardo attento dell'Europa.
Eterni ritorni e sconfitte: il giornalismo politico come suggestione letteraria
L'eterno ritorno della Democrazia cristiana, che torna a prendere il seggio più altro, e si dimostra sola riserva del '900 italiano, e l'eclatante sconfitta della sinistra Pci - Pds - Ds, che non riesce a imporre un suo uomo e subisce la scelta renziana (e di quella socialista con il nome di Amato). Questa lettura è quella che più appare come una suggestione letteraria, facilitata dal fatto che consente di indulgere nella resa dei conti con la sinistra italiana, pratica sempre viva tra i commentatori della grande stampa nazionale, che entusiasticamente la rinnovano ad ogni occasione.
Se non bastasse il disastro che culminò col Napolitano-bis, passando dai governi di larghe intese e dalla gestione del pre e post campagna elettorale, per definire la vera sconfitta recente di quella tradizione politica, è guardare al quadro reale, a cosa è ed è stata l'elezione della Presidenza della Repubblica nella storia politica italiana, che aiuta a capire perché quest'analisi non ha senso.
La Presidenza. Una scelta che media tra riconoscimento di culture politiche e contingenze
Col crescere della crisi della politica e dei partiti, il ruolo di garanzia costituzionale è sempre più evocato per il Quirinale e le ultime Presidenze sono state caratterizzate da una maggiore presenza nelle dinamiche politiche e parlamentari. Ma, nei cambiamenti, ci sono caratteristiche finora irrinunciabili. La Presidenza della Repubblica attinge da sempre a un serbatoio di figure istituzionali, da un lato, e ambiti politico-culturali, dall'altro, in una sorta di affidamento della tutela della Carta e dell'interesse collettivo al meglio delle culture di parte (e di partito) che il Paese ha espresso.
Quando, con l'elezione di Pertini, venne rotto il monopolio democristiano non si intaccò la tradizione di alte cariche dello Stato assurte alla Presidenza. Ciampi, che veniva dalla Banca d'Italia, costituì un'eccezione ma mai la guida di un partito, di un ministero o di un esecutivo erano considerate premesse sufficienti per il Quirinale. Tutti i Presidenti hanno ricoperto la seconda o la terza carica dello Stato, Cossiga al Senato e tutti gli altri alla Camera.
Con Pertini venne valorizzata la componente socialista come rappresentante della tradizione operaia, contadina e cooperativa della sinistra non comunista che giunge col centrosinistra al governo del Paese, con Cossiga l'esperienza emergenziale della solidarietà nazionale, con Scalfaro l'Azione cattolica e il cattolicesimo conservatore democratico e antifascista, con Ciampi la cultura azionista e l'antifascismo laico non comunista, con Napolitano la componente politico-culturale del comunismo italiano e del movimento operaio che riconosce il mercato, peraltro nella sua tradizione migliorista più filo-occidentale.
Ogni elezione, poi, rappresenta anche il momento storico-politico in cui avviene, la contingenza. Così Pertini diventa Presidente dopo che i comunisti hanno chiuso la loro esperienza di appoggio esterno al governo Andreotti di Unità nazionale, che nacque dopo il Caso Moro, ma in conseguenza della convergenza di Dc e Pci contro il nome di Giuliano Amato, candidato di Bettino Craxi. Cossiga viene eletto al primo scrutino come frutto dell'accordo tra comunisti e democristiani, dopo la forte Presidenza Pertini. Scalfaro viene eletto nel mezzo delle stragi di mafia, con Parlamento e politica obbligati a risolvere lo stallo che impediva l'elezione presidenziale. Ciampi garantisce l'Europa del controllo sulla eccessiva leggerezza nel controllo dei bilanci. Napolitano è il nome su cui si salda il fronte non berlusconiano, scegliendo un arbitro autorevole, con grande esperienza e relazioni internazionali, in grado di garantire tutto l'arco dei partiti e parlare anche a chi non lo aveva votato.
E' evidente, in questo quadro, che un secondo Presidente di seguito proveniente dalla tradizione ex-comunista, per di più dopo un eccezionale secondo mandato, non era contemplabile; e che i criteri di esperienza istituzionale, assenti nei nomi provenienti dal Pd, non consentivano questa soluzione, né la prospettavano. Evidenziare la presunta sconfitta di quella cultura politica nell'elezione di Mattarella risponde più al fare propaganda che cronaca politica. A parziale discolpa diciamo che a confondere le acque è servita anche la ridda di nomi interni al Pd - Fassino, Chiamparino, Finocchiaro - che sono stati fatti circolare sulla stampa dall'entourage renziano. Chiamparino è sempre stato un nome di riserva per Renzi ma il segretario avrebbe gradito anche esponenti del Pd non renziani perché avrebbero comunque costituito una presidenza debole. Per quanto una volta entrati al Quirinale le cose cambino, e subordinazione e debiti di gratitudine possano essere seppelliti dall'autorevolezza della carica, è indubbio che in un confronto tra Renzi e, per esempio, Finocchiaro, davanti agli italiani la forza sarebbe stata tutta dalla parte del capo di governo. La foto dell'uomo di scorta che spinge il carrello della spesa avrebbe rappresentato la reale misura dei rapporti di forza tra il Palazzo del Quirinale e Palazzo Chigi.
L'Italia dell'ultimo ventennio: un deserto sterile per le istituzioni democratiche
Anziché titolare su sconfitte in partite mai giocate, si sarebbe potuto notare come il panorama istituzionale degli ultimi vent'anni sia un deserto sterile che nessun nutrimento può dare alla democrazia italiana. A parte Luciano Violante, eternamente soccombente al momento della verità, l'ultima volta per l'elezione a giudice costituzionale, gli ex presidenti della Camera, Pier Ferdinando Casini, Franco Bertinotti, Veronica Pivetti e Gianfranco Fini, costituiscono tutto tranne che una riserva per la Repubblica. Né al Senato le cose van tanto meglio se, a parte Franco Marini, tragicamente e irresponsabilmente affondato dalle faide interne al Pd e all'incedere dell'avanzata renziana, nessuno, fra Carlo Scognamiglio, Marcello Pera e Renato Schifani, ha autorevolezza, capacità e consenso per salire al colle più alto.
Sarebbe stato più utile chiedersi come mai le istituzioni italiane degli ultimi vent'anni, quelle dell'epoca del bipolarismo e delle leggi elettorali maggioritarie, non siano riuscite a costituire una riserva per il Paese e per la sua istituzione principale, tanto che continuiamo a rivolgerci alle risorse della cosiddetta Prima Repubblica. Sarebbe stata, anche, una utile verifica per effetti della qualità della politica e della democrazia italiana dell'ultimo ventennio, nel quale siamo intervenuti sul l'architettura politica e istituzionale attraverso un gran numero di riforme di vario tipo, i cui effetti ci guardiamo bene dallo studiare, preferendo dire che sono vent'anni che di riforme se ne parla e non si fanno e di come ora sia giunto il momento inderogabile.
L'eterno democristiano immaginario
Veniamo quindi all'eterna vittoria democristiana, ricostruzione così piena di suggestioni letterarie da far innamorare, malgrado occorrano diversi artifici per sostenerla. Intanto non si sostanzia se non in giustapposizione con la lettura della sconfitta degli ex-Pci. Questa versione, poi, ci narra una storia italiana monca e falsa, che riduce le grandi tradizioni politiche a macchiette alla Peppone e Don Camillo e la cultura politica cattolica a una storiella nella quale vince l'eterno democristiano, quella commistione di potere oscuro, sagrestia, questura, salotti dei notabili, gabinetti delle ambasciate; l'arte del filare la trama all'ombra delle salette riservate dei ristoranti romani, la capacità di sfiorare ora il losco ora l'indicibile rimanendo mondo di ogni peccato e così prosperare, sempre nell'ombra, per affiorare alla luce del sole quando serve.
Peccato che Sergio Mattarella non sia e non possa essere nulla di tutto ciò. Intanto perché rappresenta quella tradizione cattolico-popolare così forte e importante nella storia d'Italia eppure mai assurta al vertice dello Stato (a parte la Presidenza Gronchi, ma il 1955 era un altro mondo). Era la cultura politica italiana più feconda tra quelle che ancora aspettavano il riconoscimento e, non a caso, quello di Mattarella era il nome più forte da tempo, assieme a Giuliano Amato. La storia personale di Mattarella, come quella politica della Dc e del cattolicesimo italiano, dovrebbero vietare di ridurre a questo stereotipo la ricchezza delle tradizioni cattoliche, a sorvolare sulle loro contrapposizioni, che esprimono il conflitto politico-culturale in tutta la sua potenza, attraverso rotture e scontri durissimi determinati da profonde differenze nelle concezioni della politica e nelle visioni del mondo. Mattarella è quindi l'esponente di una precisa tradizione, all'interno della cultura cattolica italiana, che sale al Quirinale: non certo il rappresentante della "eterna Italia democristiana". Fanno sorridere, quindi, le ricostruzioni che ascrivono a una cena di ex-Dc in un ristorante romano, capitanata da Fioroni, la scelta segreta del nome di Mattarella. In quella cena non avrebbero potuto fare altro che rendersi conto di quanto ormai andava maturando Renzi: che non aveva la forza, e quindi neanche la convenienza, per stoppare Amato e Mattarella e che Giuliano Amato sarebbe stato un fardello comunicativamente e "narrativamente" più difficile da gestire per il suo governo.
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Ricapitolando, Mattarella e Amato rappresentano i due nomi lontani dal volere renziano. Garantiscono una forte autonomia e competenze specifiche, ampia esperienza e personale autorevolezza. Alleati e avversari li blindano e Renzi ha capito che non troverà mai i numeri su nessun nome diverso, men che meno su un Presidente scelto da lui, non nel Pd né fuori. Bisogna scegliere. Amato è forte della stima di Napolitano ma porta su di sé il peso di una non alta considerazione popolare. Che sia meritata o meno qui non interessa, conta che sarebbe difficile, in nome dei suoi meriti e capacità, fare come se nulla fosse della furia anti-casta che ha delegittimato la politica, della quale Giuliano Amato è considerato un simbolo.
E' la principale obiezione sollevata dai renziani ai fautori del dottor sottile. Dopo una presidenza come quella di Napolitano, sottoposta a feroci attacchi, di matrice grillina ma non solo, una presidenza Amato avrebbe aperto un periodo di tensioni, di attacchi al Colle, di polemiche sulla distanza tra popolo e istituzioni, non adeguato alle difficoltà che l'Italia deve affrontare. Per Renzi sarebbe stato un problema. Come accostare la rottamazione all'elezione di un "campione della Prima Repubblica" (inteso, naturalmente, nel senso negativo che la narrazione renziana condivide)? Mattarella aveva dalla sua la discrezione, la lontananza dalla cronaca politica degli ultimi anni, il valore simbolico della storia personale della sua famiglia, la scelta di entrare in politica contro la mafia.
La scelta di Renzi non era difficile, in fondo, perché le scelte obbligate non lo sono mai. Mattarella aveva anche il valore aggiunto di essere un nome fatto dallo stesso Bersani nella precedente elezione, quando venne invece scelto Marini per il veto di Berlusconi sul giurista siciliano. Questo sarebbe stato tatticamente molto utile, garantendo l'unità del Pd, che è stata in effetti granitica.
Un colpo al Patto, una trappola per le minoranze
L'elezione di Mattarella, a questo punto, può essere utile anche per altro, dal punto di vista renziano. Per fare i conti col Patto del Nazareno, tanto per cominciare. L'alleanza con Berlusconi - che tale non è mai stata, potendo l'ex cavaliere solo sperare di addolcire il declino e proteggere le proprietà - è diventata un ingombro, anche per la mancanza di lucidità dell'anziano avversario politico e per i limiti dei suoi colonnelli. Per il Quirinale i voti di Berlusconi non servono e questa è l'occasione per smentire quel ruolo dominante di Arcore nelle politiche di governo che la fantasia della stampa orfana dell'antiberlusconismo immagina e racconta ai lettori - e i berlusconiani avallano. Probabilmente neanche Renzi prevede che lo stato di confusione del leader di Forza Italia sia tale da spingerlo a cacciarsi tanto profondamente nell'angolo facilitandogli il compito, come sarà per la disperazione di Verdini. Ma questo certamente giunge a confermare la certezza di Renzi che il successo si ottenga solo stando in continuo movimento, alzando la posta dello scontro, scrivendo sempre l'agenda e distribuendo le carte al tavolo.
Poi, Renzi guarda al Pd. Poco importa Le minoranze possono pensare di avere ottenuto un successo e in effetti ritengono, o sperano, che ci siano ancora margini per un percorso condiviso, che la fine del Patto del Nazareno costituisca un quadro nuovo, spingendosi a invocare e richiedere un "metodo Mattarella" anche per le altre riforme, metodo che per Renzi, semplicemente, non è mai esistito, essendo lui arrivato per altri percorsi alla medesima scelta.
Da qui inizia la spossante trattativa sul Jobs act che, al costo di altre spaccature interne, giunge a una mediazione votata all'unanimità in commissione di cui il governo non terrà nessun conto. Renzi straccia così il disegno di alzare il livello dello scontro per poi occupare una (illusoria) rendita di posizione nella mediazione tra minoranze e segreteria, sin qui portata avanti dai bersaniani anche a costo della progressiva marginalizzazione della minoranza anche nei gruppi parlamentari, dov'era maggioranza. Il segretario ha preparato una vera trappola politica e inflitto quella mazzata i cui postumi verranno dalle stesse minoranze messe in scena nell'acquario di Roma - divise su tutto e evidentemente all'angolo, incapaci di parlare con voce non si dica sola ma almeno intonata.
Qualche riflessione sparsa, a mo' di conclusione provvisoria di un racconto aperto
Questa ricostruzione, che come tutte è opinabile, parla di una sconfitta di Renzi che contraddice il racconto della stampa, ma non mette in dubbio la forza né l'abilità del politico. La capacità di gestire i "non successi", viene messa alla prova nella capacità di compiere un'analisi realistica della fase e di capire come volgere al meglio la situazione, fuori e dentro al partito.
Che l'illusione di un "metodo Mattarella" cada, non dovrebbe preoccupare solo le minoranze del Pd. Il carattere che porta Renzi a umiliare gli avversari, a stravincere, a confondere la realtà con la volontà, e la realtà degli effetti delle riforme con la volontà di cambiare finalmente questo paese, costituiscono, in questo momento, il maggiore nemico di un leader politico altrimenti quasi senza avversari fuori di sé, con un compatto appoggio da parte dell'estabilshment nazionale e un panorama mediatico in maggioranza espressione degli interessi che hanno favorito la sua ascesa.
All'esterno è facile imporre la sua lettura, nella distrazione della stampa, la cui uniformità di vedute e indulgenza verso Renzi inizia solo ora a conoscere qualche timido cenno critico provenire dalle colonne di quei giornali che lo hanno trionfalmente accompagnato prima alla guida del Pd e poi del governo. Ma così rischia di passare una visione della vicenda nella quale si perdono tanti spunti utili di riflessione. E rischia, Renzi, di credere troppo ai suoi racconti, di ridurre tutto allo scontro tattico e di indulgere nei lati distruttivi del suo carattere, mettendo in ombra il costruttore.
Alla fine possiamo consolarci, pensando alla democrazia come a un'entità immanente, i cui meccanismi nella politica giungono, seppur per vie tortuose, nel giusto alveo, come torrenti apparentemente disordinati. E Sergio Mattarella, forse la figura più adeguata in questo momento, è giunto al Quirinale, malgrado tutto.
Ma le cose stanno per cambiare e questa è, forse, l'ultima elezione presidenziale come la democrazia italiana l'ha concepita e sin qui conosciuta nella storia della Repubblica. A riforme elettorali e istituzionali fatte - nel pieno dispiegare del loro famigerato "combinato disposto" - il segretario del partito che vincerà le prossime elezioni disporrà di una maggioranza blindata, in massima parte di nominati. Questa maggioranza potrà eleggere confortevolmente il suo Presidente della Repubblica, i giudici della Corte Costituzionale, i presidenti delle autorità di garanzia. E sarà tutto un altro film. Se un film epico, un horror, un dramma, forse una commedia all'italiana, lo sapremo solo pagando il biglietto, ché nella costruzione delle regole della democrazia nulla è gratis.

E. M. Scerrino