Social network e sicurezza, la nuova frontiera online

bedessi1I social network, ma meglio sarebbe chiamarli social media (Facebook, Twitter, Google+, tanto per nominare i più Comuni) stanno acquisendo sempre più importanza nella vita di tutti i giorni, con riferimento alle relazioni sociali che ognuno di noi intrattiene, grazie a questi mezzi, con le persone più o meno vicino e stanno acquistando importanza anche per la sicurezza a tutti i livelli (locale, nazionale, internazionale), sotto vari punti di vista.

In qualche modo si può dire che oggigiorno i social media costituiscono una vera e propria terra di frontiera per chi si occupa di sicurezza.

Spiegare cosa si intenda per social media non è semplice in quanto non esiste una definizione condivisa, dal momento che ognuna rimarca questo o quell’aspetto. Visto che parliamo qui di sicurezza una definizione interessante sotto per questo aspetto potrebbe essere la seguente: ”Strumenti di connessione e comunicazione, disponibili esclusivamente nel cyber space, il cui funzionamento operativo è basato su hardware (internet e mobile networks) e software (Twitter, MySpace, YouTube, ecc). Grazie a questi strumenti gli utenti possono: comunicare fra sé; condividere differenti tipi di contenuto (video, foto, immagini, testi, suoni, musiche, ecc.); costruire e rafforzare reti e collegamenti in uno o più campi (professionale, familiare, sociale, culturale, politico, religioso, ecc.); sviluppare e definire la loro identità sociale.”

Da notare l’accento che la definizione pone su due punti salienti che rendono lo spazio virtuale, chiamiamolo così, ben diverso dallo spazio fisico: i social media consentono di costruire e rafforzare network che possono cooptare individui molto lontani fra loro, non solo in termini spaziali, ma anche culturali; essi consentono inoltre la definizione di una identità sociale che può essere ben diversa dall’identità sociale (reale) posseduta nel mondo fisico.

Contemporaneamente i social media sono anche uno strumento che le persone utilizzano per comunicare fra loro in modo più frequente, talvolta continuo, anche qui con risvolti particolari sui rapporti che queste persone hanno fra loro.

bedessi2Ma veniamo a quel che qui ci interessa: sicurezza e social media.

Da una parte i social sono un nuovo strumento di comunicazione per i delinquenti: è ormai comune e quotidiano l’utilizzo da parte degli spacciatori di droga di Whatsapp per prendere le “ordinazioni”, dove ogni emoticon - le piccole immagini che il sistema di instant messaging consente di inviare alle persone con le quali si è in contatto - corrisponde ad una tipologia di sostanza; dall’altra sono una miniera di informazione tanto per chi commette crimini, quanto per la polizia, e utilizzati sempre più massicciamente tanto dagli uni quanto dagli altri.

Chi si occupa di sicurezza, a tutti i livelli, deve allora spostare la propria attenzione dal controllo del territorio fisico al controllo di un territorio (anche) virtuale; dal momento che i social media stanno cambiando le abitudini sociali coinvolgendo in questo cambiamento anche chi si dedica ai reati, di conseguenza chi questi reati deve prevenire, contrastare e reprimere deve prenderne atto ad approcciarsi di conseguenza.

Tanto per fare alcuni esempi.

Sempre più spesso il ladro utilizza i social network per poter avere informazioni sul comportamento di quello che poi sarà il derubato: se vogliono svaligiarvi la casa non occorre più che il malvivente passi ore ed ore appostandosi camuffato nei pressi di casa vostra per comprendere le vostre abitudini; basterà che si faccia vostro amico su internet, complice la voglia di tutti di avere più amici possibili per dimostrare quanto siamo apprezzati, ed in questo modo sarete voi stessi a fornirgli le informazioni che gli servono.

Mentre i social media sono dunque utilizzati dai malviventi per ottenere informazioni sui loro target, nuovi crimini, prima impensabili (si pensi al social network bullying, oppure al cyber squatting o ancora al ramsomware), si affacciano all’orizzonte.

Di contro, sempre grazie ai social media, sono oggi possibili nuove forme di indagine, anche molto sofisticate; al classico criminal profiling che cercava di individuare le caratteristiche del criminale si sta sostituendo un’analisi più o meno massiccia di profili e di dati inseriti spesso proprio da chi il crimine ha commesso, magari per mania di protagonismo.

Il cambiamento di scenario dovrebbe però portare ad un cambiamento di approccio, con la comprensione che i social network (social media) non sono solamente un nuovo ambiente nel quale condurre indagini e attività di intelligence, ma veri e propri strumenti di lavoro che possono offrire molte nuove opportunità per la gestione della sicurezza a tutti i livelli.

Si dovrebbe quindi parlare di intelligence cibernetica come strategia di prevenzione, o meglio di social intelligence, un concetto che porta con sé il problema delle possibilità, dei limiti e delle difficoltà di questo tipo di controllo sociale, prodromico al controllo fisico vero e proprio.

Al momento manca purtroppo manca una visione unitaria, sotto il profilo della sicurezza nazionale e locale, della miniera di informazioni costituita dai social media costituiscono e non vi è una formazione specifica per gli organi di polizia dei vari livelli (nazionale, locale), formazione che consenta loro di affrontare questo tema tramite rigorosi criteri di analisi.

Certamente la crescente disponibilità di dati consentirebbe di affrontare il problema della gestione della sicurezza urbana e nazionale con nuovi strumenti da affiancare alla insostituibile conoscenza del territorio da parte delle forze dell’ordine, fra l’altro con costi inferiori; su molti casi chi si occupa di sicurezza potrebbe ben individuare l’autore di un reato senza spostarsi dalla scrivania, grazie alle informazioni reperite sui social media.

Va poi notato come mentre da un lato l’abbondanza di dati georeferiti gestiti dalle Amministrazioni Pubbliche consente oggigiorno di condurre analisi che possono fornire un importante supporto alle decisioni pubbliche in materia di sicurezza (evidence based decision making) con riferimento ad uno specifico territorio, dall’altro il rapido sviluppo dei social media supera ormai il legame tra fatti sociali e spazio fisico e pone questioni non banali sulla possibilità di analizzare i dati disponibili in social network e blog per la gestione della sicurezza locale, nazionale ed anche internazionale.

Tanto per fare un esempio di quest’ultimo caso si pensi ai gruppi di afgani e pakistani presenti nelle nostre città, molti come richiedenti asilo, che a frotte si posizionano sotto le wi-fi per connettersi ai social media e, in questo modo, mantenere i contatti con i gruppi sociali di appartenenza nel paese di origine; le informazioni che si scambiano potrebbero ben avere un valore dal punto di vista della sicurezza internazionale, ma quanto è lecito, per il nostro ordinamento giuridico, intercettare e quindi utilizzare queste informazioni?

Si tratta di una problematica importante: il diritto, per le strutture pubbliche che si occupano di sicurezza, di accedere a questi dati e di utilizzarli, che si porta dietro il problema della riservatezza degli stessi e dei limiti che questa riservatezza può incontrare nel caso sia in gioco la sicurezza.

Per definire meglio la problematica si tratta del tema dell’utilizzazione dei dati recuperabili sui social network da parte degli organi di polizia ancor prima delle vere e proprie indagini di polizia giudiziaria. Quanto è lecito prelevare informazioni da Facebook, Twitter, Picasa, Instagram, su persone che non risultano ancora formalmente indagate?

Quando l’indagine prodromica alla vera e propria indagine di polizia giudiziaria, in pratica la fase di intelligence, si svolgeva nell’ambiente fisico, non si entrava in contatto con quei dati oggi definiti “sensibili” dal punto di vista della disciplina della riservatezza dei dati: oggi invece l’accesso degli organi di polizia ai social network e, in genere, ai social media, nella fase di intelligence, implica necessariamente l’accesso a dati che spesso sono appunto “sensibili”.

Se, per chi appartiene ad un organo di polizia, infiltrarsi nei social network arrivando a dissimulare la propria identità per meglio svolgere il proprio lavoro è sicuramente lecito nel caso di reati particolari, come la pedo-pornografia, meno lecito potrebbe esserlo nel caso di reati minori (prima della vera e propria attività di polizia giudiziaria) o addirittura di eventi che non è chiaro a priori se sono o meno illeciti penali.

In effetti una recente sentenza della Corte Costituzionale tedesca ha messo in luce proprio questi aspetti problematici fornendo uno spunto, anche in un quadro di integrazione europea, per alcune risposte, ricordando che, in ogni caso, esistono limiti cogenti che sono quelli del codice in materia di protezione dei dati personali.

Infine il problema che se è vero, come è vero, che vi è una grande disponibilità di informazione, questa deve però essere prima trasformata in vera e propria conoscenza al fine di essere realmente utilizzabile da parte degli studiosi e anche degli organi di polizia e delle agenzie di sicurezza a tutti i livelli.

Per far questo, così come vi sono vari filoni di estrazione dell’informazione, vi sono varie prospettive di analisi: le abitudini delle persone, le opinioni, le informazioni sulla mobilità, sui consumi, sulla sicurezza, tutte prospettive di analisi individuabili tramite tecniche di social mining e, a monte, tramite l’analisi dei cosiddetti “big data” tramite il data mining.

Un’altra difficoltà che si pone a chi effettua queste operazioni è che molte informazioni sono di proprietà privata e quindi divengono utilizzabili solo previa corresponsione di un pagamento; un altro problema è quello connesso al “rumore” che questi dati si portano dietro.

Al di là delle difficoltà rimangono due punti salienti del rapporto fra social media e sicurezza a tutti i livelli.

Gli utilizzatori dei social media dovrebbero aver chiaro che al momento che condividono le loro informazioni possono mettere a rischio la propria sicurezza, la sicurezza dei propri cari e dei propri averi; ogni uso dei social media dovrebbe quindi essere fatto in modo fortemente consapevole, con particolare riferimento alla costruzione della rete dei contatti e, più che altro, alla condivisione di contenuti di immagini che possono aprire una finestra importante sulla vita personale, esponendosi a rischi non indifferenti qualora queste immagini e le correlate informazioni vadano a finire in mano a malintenzionati.

Di contro gli organi di polizia, pur non essendo semplice analizzare costantemente i flussi di informazione e i correlati contenuti di individui che possano risultare di interesse dal punto di vista della sicurezza, devono cambiare mentalità; il fatto che i social media siano strumenti che consentono, oltre alla comunicazione e alla condivisione di differenti tipi di contenuto, anche di costruire e rafforzare reti di collegamento in vari campi si deve arrivare alla conclusione che gli stessi sono idonei a sviluppare e definire l’identità sociale della persona che li utilizza, al di là dell’identità personale che può essere più o meno reale.

E siccome oggi è divenuto abbastanza facile l’utilizzazione di software di social mining, alcuni dei quali, i più basilari, di accesso gratuito, con il risultato che con pochi click è possibile individuare i messaggi di chi inneggia ai brandelli di carne umana sparsi sul Corano dopo l’attentato e da qui risalire a chi possa fare proselitismo in campo terroristico, si deve arrivare alla conclusione che se questi software fossero utilizzati in modo distribuito e a tutti i livelli molti episodi criminosi (anche i soli atti vandalici) che angustiano la vita quotidiana dei cittadini italiani potrebbero essere risolti dai nostri organi di polizia in poco tempo e con molta meno spesa.

Certamente si devono adottare policy rigorose per evitare un’esondazione di competenze che si risolverebbe in una indebita invasione della vita privata.

Sergio Bedessi

Presidente CEDUS – Centro Documentazione Sicurezza Urbana