Dall’Iraq alla Libia, l’anno che verrà vedrà l’Italia impegnata in delicate ma inevitabili avventure militari

L'anno che verrà sarà quasi certamente uno dei più complicati per le Forze armate italiane dalla fine della seconda guerra mondiale e sancirà un ritorno il Libia, anche se con finalità diverse da quelle colonialistiche del secolo scorso. Non ci sarà infatti solo il già previsto intervento in Iraq dove per presidiare i lavori di riparazione della diga di Mosul, da parte dell'impresa italiana Trevi per un valore di due miliardi, l’Italia manderà 450 soldati sul Tigri a 40 chilometri da Mosul che è la capitale irachena dell’Isis. Sarà invece il sempre più probabile intervento in Libia ad assorbire la maggiore quantità di uomini e risorse delle forze armate italiane. Infatti dopo che verrà approvata una scontata risoluzione in Consiglio di sicurezza Onu per decretare il nuovo governo di unità come l'unico internazionalmente riconosciuto e un'altra, imminente, ma meno scontata decisione per la missione di peace-keeping e anti-Isis, i soldati italiani sbarcheranno in terra libica. Già da settimane forze speciali Usa sono atterrate in Libia e altre francesi, inglesi, e appunto italiane sono in arrivo. Fra l'altro la presenza italiana, almeno a livello di intelligence è data già per scontata da mesi.
I documenti Onu, ancora secretati, prevedrebbero un contingente a terra di almeno 5 mila unità a guida italiana, da affiancare alla missione navale anti-scafisti comandata da Roma da luglio 2015: il progetto da tempo nel cassetto e anticipato con impazienza dai ministri della Difesa Roberta Pinotti e degli Esteri Paolo Gentiloni e dai non nascosti preparativi di mezzi e logistica come i trasferimenti di elicotteri d'assalto sulla Cavour (Clicca qui per leggere l'articolo di agosto di  e-paper)  .
Tutto avverrebbe come caschi blu dell’Onu, che servirebbero, come in Libano, a riportare ordine e a far operare in sicurezza le istituzioni di Tripoli. Gli inglesi che per prassi scrivono le risoluzioni con gli italiani, sarebbero pronti ad aggiungere un migliaio di uomini da dislocare, dicono le malelingue, nell’Est della Cirenaica dove hanno maggiori interessi economici. Secondo indiscrezioni, si starebbe anche valutando l'invio di un ulteriore contingente di italiani alla frontiera con la Tunisia, vicino alla città degli scavi archeologici di Sabratha, gravemente infiltrata dall’Isis, e ai campi d’addestramento dai quali parte il corridoio di jihadisti tra la Libia e la Tunisia operando in accordo anche con Tunisi.
Nulla di ufficiale ovviamente, ma capo in pectore della missione Onu in Libia, sarebbe l’ex comandante della missione Unifil in Libano Paolo Serra, apprezzato anche dal neo inviato speciale in Libia delle Nazioni unite, il tedesco Martin Kobler, il diplomatico che dopo il disastroso mandato di Bernardino Leon, ha impresso una brusca accelerata ai negoziati.
Serra lavorerebbe gomito a gomito con l’ammiraglio Enrico Credentino alla guida della missione Ue nel Mediterraneo, che potrebbe presto entrare anche nelle acque libiche per fornire ombrello aereo e navale protettivo alle azioni di terra. Il piano strategico occidentale però trova allo stato l'opposizione dei libici, in quanto nessuno dei governi libici vuole interventi stranieri nel territorio nazionale, ma sarà probabilmente solo una questione di prezzo. Neanche il nuovo governo nato dall’accordo del 17 dicembre scorso in Marocco, per ragioni ovvie di immagine e controllo, vuole militari stranieri, così come non li vogliono i capi islamisti al potere a Tripoli che fra l'altro non sembrano in realtà intenzionati a lasciare i palazzi governativi conquistati con le armi un anno e mezzo fa, come invece prevederebbe l'intesa firmata in Marocco anche da loro rappresentanti.
Ma la presenza straniera non è gradita neppure al generale Khalifa Haftar che da Tobruk comanda il parlamentino in esilio. Insomma l'accordo firmato poco meno di una settimana fa è già in crisi e non solo per la questione presenza degli stranieri. Sullo sfondo vi sono le divisioni etniche mai risolte e quelle di interessi economici ancora più complesse. Chiaro per tutti gli osservatori internazionali che in questa situazione da soli i libici non possono farcela, ma bisogna sapere che la stabilizzazione è un compito molto gravoso ed estremamente rischioso per una coalizione internazionale e per gli italiani in particolare. I terreni più delicati su cui operare sarebbero certamente quello di Tripoli, zona di conquista delle milizie e con cellule dell’Isis infiltrate da Derna e Sirte, ma anche dalla frontiera occidentale con la Tunisia. C'è poi quella sorta di pericoloso triangolo in mano anche ai trafficanti di uomini, un centinaio di chilometri quadrati, dove da mesi sono già state messe in giro voci sulla presenza di unità speciali di italiani  in azione, probabilmente per tenere alto il livello della tensione “nazionalistica”. In quell'area ci sono l’impianto di Mellitah cogestito dall’Eni, ma anche i campi per jihadisti e il corridoio dell’Isis verso la Tunisia. Da lì sono infatti passati i terroristi del Bardo e Sousse e lì a luglio si sono perse le tracce dei quattro tecnici italiani di Mellitah rapiti in Libia di cui ancora oggi non vi è traccia.